ricordi

La cabina della SIP

telefono

Vedi? Qui c’era una cabina del telefono. Sì, non c’erano i cellulari. O forse c’erano, ma i ragazzi non li avevano. Pesavano un chilo, costavano due stipendi di quelli buoni e ogni telefonata la pagavi così tanto che spesso ti conveniva mandare qualcuno di persona in taxi a recapitare il messaggio. Ma c’erano delle cabine con un telefono pubblico. Mettevi le monete e parlavi per un po’. Sempre che non ci fosse quelcuno fuori ad aspettare il suo turno. Che normalmente teneva una distanza inversamente proporzionale alla sua impazienza.

Io avevo diciassette anni. Portavo polo di colori che Pantone™ si rifiuta di codificare e avevo la riga nei capelli. Sì, avevo persino i capelli. Come dici? Sfigato? Ma come ti permetti? Certo, lo ero. Ma porta un po’ di rispetto: se non per me almeno per i ricordi.

Forse stavo cercando la mia strada (che idea quella di cercarla, come se fosse già segnata) o forse, inconsapevolmente, stavo costruendo quello che sarei stato. Mi ero messo in testa di parlare per radio. Il mio sogno era quello che mi venisse dato un microfono acceso e un programma notturno. Un cenno del regista e musica convincente e via. Sognavo di vedere la mia voce uscire da una qualche antenna, di vederla fisicamente, come nei cartoni animati. Propagandosi lasciando righe nel cielo scuro e arrivare nelle auto, alle radioline accese a volume basso nelle camerette, ai banconi dei bar. Entrare così, senza chiedere permesso e magari (magia estrema) arrivare persino a interrompere per un secondo il gesto consueto di qualcuno. Immaginare che rallentasse un attimo la sua vita per ascoltarmi. E a diciassette anni come si fa a rinunciare a un sogno così?

Avevo preso dalla guida del telefono il numero della Radio. Una piccola radio di provincia molto seguita anche se con una portata limitata (in tanti sensi).
Avevo chiamato e mi era stato detto “Devi richiamare quando c’è Turati, che è il socio. Prova domani verso le due”.

E quel domani era arrivato. Mancavano cinque minuti alle due e io ero già in piazza con la mia scorta di monetine e la bicicletta da uomo. Guardavo l’orologio e mi preparavo le frasi che avrei detto. Sapevo cosa avrei dovuto dire. Ma mi sentivo di fronte alla parete verticale di una montagna. Una voglia immensa di scappare. “Ma sì, ma chi me lo fa fare? Perché sto sudando e mi trema la voce? Ma lasciamo perdere.”

Invece, ancora non so come, ho chiamato. Ogni moneta da duecento lire che scendeva nel telefono mi cadeva un pezzo di fegato. Ma ho fatto il numero e quei tuuuuuu tuuuuuuu che segnalavano la linea libera mi sembravano eterni…
Poi “Sono Simone, ehm…ho chiamato ieri, volevo sapere se fate dei provini per parlare alla radio…”
“Vieni dai, che parliamo di persona…”

Ero io. Ero lì. E quel giorno, davanti a quella cabina puzzolente, ho deciso di non scappare.

Srebrenica, aku Bogda

  
Io di Srebrenica ho un ricordo personale. Diverso certamente da quello della maggior parte della gente che ha letto, ascoltato, vissuto quegli eventi.

Ai tempi dell’università, un po’ per cercare un senso è un po’ per gioco, mi sono lasciato coinvolgere da amici che facevano volontariato. C’era la guerra nella ex jugoslavia. C’erano i profughi. C’era un’Europa giovane che giocava a fare la grande.

Noi tra un esame e l’altro ci ritagliavamo una settimana di tempo: andavamo in macchina o con qualche camioncino nei campi profughi. Erano in Slovenia e ospitavano, coi soldi europei, la gente che scappava dalle zone di guerra. Erano quasi tutti bosniaci. Di Sarajevo, Gorazde, Gračanica, Bihac, e appunto Srebrenica. Portavamo qualcosa, ma soprattutto portavamo noi stessi. Stavamo con queste persone, parcheggiate li a vedere le loro speranze affievolirsi giorno dopo giorno.

Avevamo imparato la loro lingua. Quelle duecento parole per raccontarsi chi si era e per giocare coi bambini. Per far parlare i vecchi e farci raccontare di come era bello il loro paese. Per dire aku bogda (forse, se Dio vuole) alle donne che cercavano di sperare che fratelli e mariti tornassero.

Ho visto una mamma poi. Una mamma di cui non ricordo il nome. Durante una partita di pallone sul fango ha chiamato Nevzad e gli ha dato una merendina. Nevzad, che avrà avuto sei anni, è corso da suo fratellino Nevzed di sette anni e hanno diviso a metà il piccolo tesoro. Senza che nessuna mamma, volontario o maestro gli dicesse niente. 

La guerra continua e a un certo punto l’ONU dichiara che Srebrenica è un porto franco. Molti tornano nelle loro case. Solo che quando i serbi di Bosnia invadono la città i caschi blu scappano e avviene un massacro. Più di ottomila persone trucidate. Persone che si erano fidate di noi, dell’ONU, della parte civile e pacifica del mondo. 

Nevzed e Nevzad erano di Srebrenica. Non so se hanno fatto in tempo a tornare a casa o qualche caso o qualche dio misericordioso li ha salvati. Sono passati venti anni. Ne avranno quasi trenta oggi. Aku Bogda.

Svegliatevi bambine

primaveraCom’era quella canzone? “È primavera: svegliatevi bambine…”. Era così? O qualcosa di simile… Boh, tanto in fondo non importa. Non volevo parlare di una canzone ma di una sensazione.
Le sere scorse, andando a letto, ho sentito il respiro più faticoso. Il medico sportivo è già da qualche anno che me lo diceva “Tu sei allergico”.
Io ho sempre risposto “No, non lo sono”.
E lui “Non era una domanda, un’affermazione.”
Io non sono molto convinto (infatti non prendo niente, tranne che sonno). Ma mi sono ritrovato a pensare alla primavera.

Una foto, una foto che non saprei ritrovare, mi riporta indietro di tanti anni. Di quando avevo l’età dei miei figli. Sicuramente era primavera. Eravamo tutti e cinque (i miei genitori, io, mio fratello e mia sorella minori) nel frutteto della casa di mia nonna materna.
Forse tornavamo dalla messa di pasqua, perché eravamo vestiti in modo elegante. Troppo elegante. Forse era l’anno che qualcuno aveva fatto la prima comunione, per quello eravamo così eleganti.
Mi ricordo i capelli a caschetto di tutti e tre noi bambini, maschie e femmine. E l’erba altissima, il prato mantovano non parla inglese!
Mio padre che mi somiglia e che ha capelli e basette da fine anni Settanta.
Mia madre con una permante che a vederla adesso mi sembra davvero eccessiva in ogni dimensione.
Ma dalla foto si vede quell’impazienza. Di mettersi vestiti comodi e di andare finalmente a giocare. Forse con quelle bici ciclocross che dalle foto sembrano davvero nuove. Ecco: forse la cosa bella di quella foto è proprio quell’impazienza. Quella che spero ancora di avere dentro.
Arriva la primavera e sento un fastidio sul palato. Ma non voglio antistaminici. Vorrei piuttosto una bici ciclocross e l’impazienza di usarla.

come la noia

noia2

Perché quando la noia ti circonda e tu sei all’undicesimo piano, hai davanti una gamma molto limitata di opzioni.

Una di queste è guardare la televisione. Tanta televisione, tanta tanta televisione, tanta tanta tanta televisione. Magari dando anche ascolto alla prof di lettere che dice che vanno scelti preferibilmente programmi educativi. E se hai una prof di lettere che usa avverbi come preferibilmente, allora lo capisci subito che tu di chance nella vita ne avrai davvero poche.
Ma i cartoni animati non lenivano il senso di noia. Le loro immagini fisse e ripetitive come la trama di ogni episodio non soddisfacevano nessun desiderio di evasione. E a questo andava aggiunto il senso di colpa che derivava dai proclami disfattisti dei grandi sulla “televisione che rincretinisce” sui “cartoni animati giapponesi che fanno diventare violenti”. La violenza, a dire il vero, la generavano: ma solo perché quando io volevo vedere un programma e mio fratello un altro, spesso finiva che facevamo a botte. Poi il nesso di causalità lo valuteremo in appello.
Guardavo tanta televisione, ma mi interessavano soprattutto i documentari. I bei documentari di Quark con dentro tanti animali e tanta natura e tante leggi del mondo.

Ma quando neanche questo bastava allora c’era la chitarra. Fotocopie di canzonieri scritti in un carattere piccolissimo, con gli accordi (a volte persino corretti) scritti a mano. E poi gli arpeggi, più consoni al decoro del condominio, per  volare via da quella stanza. In avanti, verso amori plausibili in rima, oppure verso palchi, verso storie, verso fantas… “Ehi! Io di qua sto facendo i compiti! Non rompere con quella chitarra! Che tanto fai schifo a suonare.”
Ecco! Poi si atterrava bruscamente.

A volte erano esperimenti scientifici. Tipo prendere un batuffolo di cotone, metterlo nel bidè, sporcarlo di alcool denaturato e dargli fuoco. Pochi secondi di terrore e meraviglia. Vedere la fiamma che diventa blu e arancione e blu. E lascia vapori e sbuffi che poi è un casino mandare via dall’atmosfera viziata del bagno. Passando in pochi secondi dalla scoperta scientifica alla certezza scientifica che saremmo stati scoperti.

A volte era il campetto condominiale. Fondo di terra (molto) battuta, siepi di ligustro e forma triangolare. E quando vincevi a pari o dispari nessuno sceglieva palla, ma tutti campo. E poi Felice che era una schiappa, ma il Tango era suo. Sì, era il Tango di gomma, non quello di cuoio, ma vuoi mettere? Allora ti toccava sceglierlo e in porta fare un po’ per uno. Altrimenti se ne andava, pallone compreso.

Ma alla fine siamo sopravvissuti a tutta questa noia. E siamo persino diventati grandi.

SuperTele sgonfio

supertele

Chi mi conosce non ci crede che ho giocato a pallavolo. E per una dozzina d’anni, per giunta. Certo: non avevo il fisico, vista la mia altezza e la mia struttura fisica. Ma non ero l’unico tappo della squadra. Noooo, non ero neanche alzatore: non ero abbastanza preciso nel palleggio. Ero un opposto. Che è un ruolo opposto all’alzatore nella disposizione in campo. Ma nel mio caso l’opposizione era anche al concetto di bravura. Ma una cosa la pallavolo me l’ha lasciata: la profonda convinzione che la  determinazione fa la differenza. In certe situazioni più che in altre, ma in ogni caso bisogna crederci.
Avevamo fondato la squadra quando avevamo una quindicina d’anni. Avevamo trovato un bravo ragazzo che ci faceva da allenatore e ci eravamo iscritti a un campionato (molto) dilettantesco. Alle prime partite qualcuno veniva anche a vederci, ma visti i risultati i nostri familiari si sono presto dileguati.
L’unico che ci seguiva e che spesso ci accompagnava in trasferta era il padre magro di Enrico, il ciccione della squadra. Aveva un aspetto rassicurante e due occhiali passati di moda.
Quando il gioco richiedeva il massimo della concentrazione lui ci incitava gridando “Stringete le chiappe!”.
Ora: in una palestra semivuota rimbomba tutto. Il vuoto del sabato pomeriggio ingigantisce ogni suono. Il vuoto della periferia milanese amplifica ancora di più l’effetto. La vuota stupidità di ragazzotti di quell’età fa il resto. E quella frase ci faceva scoppiare a ridere e perdere ogni residuo barlume di concentrazione. Ma il senso di quella frase era perfetto. Bisogna dare il massimo, bisogna mettercela tutta, bisogna restare concentrati. Questo a prescindere dalla contrazione dei glutei, certo.

Ieri guardavo Federico e Luca che si passavano il SuperTele coi piedi. Nonostante fosse un vecchio pallone non regolamentare, un po’ sgonfio e decisamente sporco, mi hanno stupito per il controllo del pallone e per la imprevedibilità dei movimenti. Bei dribbling, bei movimenti, padronanza. Per un attimo ho pensato di assecondare Luca nella sua costante litania “Mi iscrivi a calcio? Se non quest’anno l’anno prossimo mi iscrivi a calcio? Mi iscrivi a calcio invece che a nuoto?”(Ad libitum).
A me piace il calcio. Anzi: mi piace giocare a calcio. Mi piace poco guardarlo e non mi piace per niente parlarne. Mi sento tremendamente banale e inaffidabile quando mi capita di farlo.
Ma soprattutto la prospettiva di trovarmi fuori da un campo di calcio con genitori urlanti frasi inconsulte mi scoraggia. Ho visto genitori che gridavano “Uccidilo!” “Spezzagli le gambe” “Arbitro venduto” “Entra duro” a bambini infreddoliti di neanche dieci anni.
Allora rimpiango il papà di Enrico e i suoi occhiali spessi e le sue frasi sconclusionate. Ma apprezzo ancora di più il messaggio pulito che passava.
Scusa Luca ma finché ci saranno genitori come quelli che ho visto fuori dai campi di calcio, io preferisco mandarvi a nuoto. Non importa se ti resta il SuperTele un po’ sgonfio e le partite improvvisate in campi non regolamentari. Non importa se adesso non capisci. Non importa se non diventerai un calciatore come quelli delle figurine. E anche se mi dispiace, non importa se mi domanderai altre mille volte “Ma l’anno prossimo mi iscrivi a calcio?”

Due precisi motivi per non regalarti il cellulare

smartphone

“Ma perché i miei compagni di classe possono avere il cellulare e io no?”
Una domanda impostata bene, anzi benissimo. Un’ottima tecnica di persuasione. Per qualche secondo la seguo persino in questo ragionamento pericoloso e scivolo verso il fondo del suo tranello.
“Ma scusa, Chiara, chi ha il cellulare?”
“Tutti tranne [segue un lucidissimo e brevissimo elenco di compagni di classe per lo più sfigatini]. E poi tra gli Scout tutti quelli dalla mia età in su, addirittura tanti di quelli più piccoli”
Capisco che sto sbagliando tutto e riprendo il filo:
“Il cellulare, per adesso, non lo puoi avere. Per due precisi motivi:
– Hai dieci anni, io il mio primo l’ho avuto a ventinove anni. E sono cresciuto lo stesso.
– È un costo, un costo molto alto. Pensa che fra qualche anno lo chiederanno anche i tuoi fratelli
– È pericoloso, perché taglia fuori i genitori da un ruolo di controllo e di protezione che devono avere, verso ragazzi della tua età
– Io e la mamma abbiamo paura che ti porti via tanto tempo e ti lasci meno voglia di esperienze più reali. Di giocare, di leggere, di frequentare i tuoi amici.
– Non ti serve. Se devi chiamare qualche amico o compagno di classe puoi usare il telefono di casa o ti prestiamo i nostri
– Se vuoi navigare su internet lo facciamo assieme con il tablet o con il PC, ma noi dobbiamo insegnarvi e vigilare
– Non voglio spaventarti, ma ci sono anche malintenzionati in giro. Un malintenzionato non chiamerebbe mai a casa, ma ti chiamerebbe senz’altro sul tuo numero.
E poi…”

Mi interrompe con lucidità e logica. Non sembra delusa, tanto non ci sperava in un facile sì.
“Ma non avevi detto che sono due motivi per il no?”
“In effetti elencandoli me ne sono venuti altri…”

Non glielo dico, non posso certo darle uno spunto per incrinare la mia strategia di arrocco. Ma il punto è che io non sono ancora pronto alla sua adolescenza. Non sarò un padre geloso. Protettivo sì, brontolone sì. Ma geloso no. Solo che non sono ancora pronto e trovo scuse. E il cellulare è un salto in avanti troppo lungo per me. Ma è questione di anni (pochi) o forse solo di mesi.
Ripenso quando Chiara era nel pancione, in agosto, oltre il termine previsto per la sua nascita. Io cercavo di buttarla sul ridere come sempre e arrotolavo un foglio di carta a cono, come se fosse un megafono. Lo puntavo verso la pancia enorme di Francesca e dicevo con voce nasale “Lo sappiamo che sei lì dentro! Non fare scherzi! Esci disarmata e con la testa in avanti e non ti succederà niente!”
Ecco: lei poi è uscita, senza fare scherzi. A me sembra ieri ma sono passati più di dieci anni. E io ogni giorno mi rendo conto che sono sempre troppo lento ad adattarmi ai cambiamenti.

Quella cosa della pioggia

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-Chiara, adesso non mi viene, ma c’era una citazione bellissima sulla pioggia, sul coraggio. Mi sembra di Gandhi. Ma se smetto di pensarci forse mi viene in mente.  Guarda: forse ho insistito un po’ troppo ma sono proprio contento che alla fine ti sia convinta.
Quando siamo scesi dalla funivia eravamo al Rifugio Col Rodella. Già a 2300 e già il cielo non prometteva una bella giornata. Poi siamo scesi al Rifugio Friedrich August con quell’orribile bovino gigante in vetroresina. E poi, lentamente verso il Rifugio Pertini. Sai: ci abbiamo messo un’ora e mezza, adeguandoci al passo dei piccoli e a tuo zio che fotografa ogni lepidottero ortottero e coleottero nel raggio di due metri.
E poi il dubbio: ci fermiamo a mangiare al Rifugio Pertini per poi tornare indietro o andiamo avanti, contro il cattivo tempo, fino al Rifugio Sasso Piatto? Ci vuole almeno un’ora e poi per tornare altre due ore. No, non c’è una grande pendenza, è quasi in piano. Ma si tratta di prendere il tempo che viene.

Così siamo partiti. Chiara e io, figlia e padre. Zaini alleggeriti e passo svelto, quasi per non sfidare troppo platealmente il nuvolone che cresceva proprio a ovest, di fronte a noi. Chiara inaspettatamente coraggiosa e io prevedibilmente orgoglioso di questa sfida. Sfida piccola ma affrontata in due.
Abbiamo camminato svelti, sul quel sentiero facile e segnato dai tanti passanti. Abbiamo visto falchi pellegrini e marmotte che la sapevano lunga. Abbiamo cercato di fotografarli e li abbiamo indicati agli altri passanti meno attenti, atteggiandoci a grandi esperti. Poi siamo arrivati in fondo a quel sentiero.
“Facciamo in fretta ché dobbiamo tornare prima che inizi a piovere”
Allora siamo entrati subito, senza neanche toglierci gli zaini dalle spalle. Una fetta di SacherTorte io (con panna a parte), uno strudel Chiara (con crema a parte). Ci siamo arrampicati su un tavolaccio all’aperto, altissimo tanto da credersi un bancone di un bar di corso Como, non fosse per le schegge e per l’aria incomparabilmente diversa, in tutti i sensi. Cinque minuti e poi siamo ripartiti, come fossimo veri camminatori, come fossimo quelli che sanno fiutare il tempo che cambia.
I nuvoloni si facevano sempre più densi e adesso, sulla strada del ritorno, erano dietro di noi. Sembrava avessero perso il pudore di seguirci senza farsi scorgere. Noi camminavamo, loro dietro trottavano. Abbiamo camminato camminato camminato. E ci siamo arrivati in fretta al Rifugio Pertini, a metà strada. Il grigio sembrava troppo già troppo scuro per restare appeso là in alto.  Allora via veloci, subito. E subito le prime gocce sulla testa.
-Eccola, la pioggia!
Abbiamo detto. E subito a cercare un nuovo assetto. Gli indumenti di emergenza a portata di mano. E via a camminare, senza ansia ma con un po’ di fretta.
Di colpo la pioggia si è fatta fitta fitta. È stato solo allora che abbiamo indossato K-way e giacca a vento dal cappuccio, come due mantelli.
Ma quasi subito quel nero si è trasformato in grandine. Chicchi non enormi, grandi come piselli.
Continuando a camminare ci siamo uniti, fianco a fianco, sotto il mio k-way di plastica, quello con scritto il nome della mezza maratona alla quale me l’avevano dato, all’arrivo, e non lo avevo voluto buttare. Vedi che poi torna buono, dopo tanti mesi chiuso e ripiegato?
I chicchi sulla grandine picchiavano rumorosamente e noi camminavamo svelti e ingobbiti, su quella strada che cominciava a diventare scivolosa.
-Ahi”
Ogni tanto un chicco fortunato prendeva la mano che reggeva il manto e ci lamentavamo sorridendo.
Una mezz’ora e siamo riusciti ad arrivare,  proprio sul finire della grandinata, alla funivia che ci avrebbe riportato a valle.
Sgrullando via la pioggia dal nostro riparo eravamo eccitatissimi da questa esperienza epica.
-Ah Chiara, mi è venuto in mente
-Che cosa?
-Quella frase di prima. Era qualcosa come “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia!”
Chiara sorride, è felice.

Il motivatore

motivatore

Il mio inguaribile vizio è quello di cercare di convincere le persone a fare le cose. Le cose giuste. Mi viene istintivo ritenere che è buona cosa instillare nel mio prossimo ottimismo e entusiasmo. Proprio quell’ottimismo e entusiasmo che io so di avere, ma che al dunque non ricordo mai dove.
Un episodio è emblematico. Qualche anno fa correvo la mia prima maratona. Quarantadue chilometri e centonovantacinque metri. Tutti assieme. Ho deciso di farla a Roma, dove abito. Perché mica ero tanto sicuro che l’avrei finita. E allora tanto vale non prendere aerei o treni. Ma tenersi la possibilità di riportare a casa i muscoli doloranti e le aspirazioni ridimensionate con una corsa di metropolitana.
Avevo sentito parlare del buco del trentacinquesimo chilometro. Quando si esauriscono le forze e viene meno la motivazione. Una crisi, un buco nero. Ne avevo così paura che ho corso tutta la gara cercando di andare piano, ancora più piano, per avere riserve per superare quella crisi.
Crisi che poi non è arrivata. Ero arrivato al ristoro del trentasettesimo chilometro. Ho preso la scusa di un bicchiere di gatorade, mezza banana, due biscotti per fermarmi un po’. Le gambe dure, i passi sempre più brevi.  Prima di partire cerco di sciogliermi un po’ i muscoli e faccio qualche secondo di stretching. Cammino, poi mi piego in avanti mi tocco le punte dei piedi con le mani.
All’improvviso mi si avvicina un invasato che mi grida nelle orecchie: “Non mollare! Non adesso! Dai che sei quasi arrivato! Non arrenderti ora! Non mollare! Nooon mollaaaaaaaare!”
Ci metto un po’ a capire cosa stia succedendo. Ha una casacchina con scritto Motivatore. Ecco perché grida.
Continuo col mio stretching e lui a gridare. Come se arrivato lì avessi la minima tentazione di rinunciare alla mia prima maratona.
Finisco lo stretching e mi rialzo. Lui continua a gridare, a gridarmi nelle orecchie.
Parto lentamente. Lui ancora grida. Riparto accompagnando il mio sentito vaffa a un gesto della mano. Mentre lui ancora grida.
Da allora mi riprometto di evitare di motivare chiunque in qualunque occasione. Ma poi ci ricasco sempre.

Markingegno Run

markingeniosmall
Vado a Rimini per la festa della rete. Ci vado soprattutto per rivedere gli amici di Spinoza. Poi finisce che anche quest’anno abbiamo vinto il premio come miglior sito di Satira, ma chi se ne frega. Non è di questo che voglio parlare, ma di una corsa. Una corsa fatta nei ritagli di tempo, un po’ per caso.

È andata più o meno così…
Giro tra un evento e l’altro, destreggiandomi tra l’inaffidabilità degli orari scritti sul programma e la voglia di non perdere niente.
Da molti amici ricevo lo stesso invito:
Oh, tieniti libero sabato sera ché alle sei e mezza si corre.
Oh, ci vieni alla corsetta sabato sera?
Oh, dai che ci muoviamo un po’ dopo gli eventi
Mi sono accorto solo adesso che tutti i miei interlocutori usano questo “Oh” all’inizio della frase. Come se fosse lo zero per prendere la linea nei vecchi centralini. Ho annotato anche la corsa tra le (troppe) cose a cui tenevo.
Io a dire il vero quel sabato io avevo già corso. Mi sono alzato presto e ho corso da solo 6 km. Il lungomare, la ruota panoramica, il molo fino in fondo guardando i pescatori sugli scogli che bestemmiavano le loro speranze in romagnolo e sbuffi. E poi ancora il molo, il lungomare, e via così. Correndo come piace a me: presto, in silenzio, da solo.

Ma poi c’era la corsa per Donato, che in rete era Markingegno. Uno che era molto amato nella rete e che nella rete amava starci. Così come amava correre.
E allora verso le sei e mezza ci siamo trovati tutti e siamo andati verso una spiaggia che era tanto bella da sembrare finta. Il fondo era liscio, umido, perfetto non solo per correrci, ma anche per girarci un film. Il sole stava scendendo con la pigrizia della riviera a fine stagione. E noi eravamo lì, amici e sconosciuti, tutti per lo stesso motivo. Tutti con lo stesso entusiasmo.

Siamo partiti. Correndo forte senza accorgercene.  Ma dopo qualche decina di metri “Oh, Sara vai piano che siamo sotto i 5 al chilometro!”
Ma poi via, veloci, ventosi, convinti. A ripensare quelle frasi che qualche amico di Donato si era preso la briga di riproporre sui social network. Quelle frasi che ti strappano un silenzio e un sorriso senza riserve.
Via, veloci, concedendoci il coraggio di scacciare via con un sorriso quell’inizio di commozione.
Via, veloci, al massimo, perché le cose o le fai bene o non vale la pena farle così per fare presenza. Due chilometri e mezzo e poi ritorno. Fanno cinque, mica è uno scherzo!
Via, veloci, cercando di chiedermi se quella vocina che dice rallenta è la mia vocina interiore o la voce delle mia interiora.
Comunque via, veloci, fino in fondo. Dicendomi dai che manca poco.
Via, veloci, arrivando con le braccia alzate, chi prima chi dopo, come se per ognuno fosse la vittoria alla maratona di New York.

Che poi io Donato mica lo conoscevo bene. Ma sabato bastava guardare quel sudore e quei sorrisi per capire che bella persona è stato.

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photo: Angelo Albertini

Il riccio invece

riccio

Devo avere ancora da qualche parte la foto di mia sorella, piccola piccola, con una maglietta blu scuro. Le mani in avanti, infilate in due enormi guanti da lavoro. Teneva in mano un riccio. Eravamo in campeggio vicino a Aquileia. Un campeggio al mare, in agosto, uno senza piazzole, molto bello per noi bambini. Di notte qualche animaletto girava per cercare del cibo. Un riccio veniva spesso a trovarci e alla fine lo abbiamo preso.

Il riccio puzza di selvatico. Se lo prendi in mano si chiude per mostrati gli aculei tutti intorno. Sembra tanto minaccioso all’inizio. Ma poi lo capisci che lo fa per difendersi. La paura la senti quando lo vedi respirare, senti il cuore che batte. E aspetti che si apra, anche se lui, finché lo tieni in mano mica è scemo: resta chiuso. E allora aspetti e piano piano, anche se non fa niente, cambi idea su di lui. È impaurito, non minaccioso. Non punge poi così tanto. E anche la puzza, in fondo, non è insopportabile.
Capisci che dentro è tenero, indifeso forse. Ma vivo. Fuori fa tanto per tenere lontani i rompiscatole ma è bello.

Tu coccoli tanto i tuoi peluche ma vorrei che considerassi il riccio. Il peluche è morbido fuori. È facile, facilissimo. Non ti dice mai di no. Ma dentro ha solo robaccia finta, morta.

Il riccio invece.