vita

Come acqua che scorre

Le nostre vite fluiscono lentamente. Spesso non ci rendiamo conto di quanto tutto scorra ordinatamente fino a quando un ostacolo improvviso si mette di traverso e fa da diga ai nostri piani. Un progetto che non dà il risultato sperato, un amore non corrisposto, una ambizione che dobbiamo ridimensionare.
A volte è anche una malattia che ci fa ripensare a quanto siamo piccoli e vulnerabili. Noi che nel traffico quotidiano ci sentiamo invulnerabili nelle auto di latta delle nostre abitudini. E se qualcosa ci disturba siamo allenati a inveire o ad alzare il volume e cantare più forte.

Se invece ci fermiamo, anche solo per un attimo, anche solo uno, a guardare l’acqua di un torrente alpino, abbiamo subito la misura della nostra piccolezza. Gocce d’acqua portate in alto come vapore, ma che adesso corrono contorte, senza sapere bene la direzione del mare. Ma a tastoni la trovano e scendono spostando sassi, grattando salici, scavando buche.

E provaci tu a costruire una diga di sassi, per giocare coi bambini. Ti rendi subito conto che non la contieni. L’acqua era lì da prima e sarà lì dopo di te. E scava il suo letto con una passione e costanza tale che non ti basterebbe tutta una vita per riuscire a concepirla.

Allora non ci resta che sederci di lato. E ringraziarla, quest’acqua, per l’ennesima lezione che ha voluto darci e che noi, studenti svogliati, probabilmente finiremo per dimenticare in fretta.  Per tornare a sentirci grandi, potenti, sufficienti.

barra di riempimento

disc fullIl disco è pieno. Strapieno. Quando mi hanno consegnato questo personal computer, il disco aveva solo 50GB occupati e 450GB liberi. Sono numeri che non dicono molto, presentati così. Ma poi io e il mio portatile li conosciamo, quei parametri. E assieme siamo cambiati, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Abbiamo imparato cose, abbiamo accumulato, archiviato, accatastato.
Abbiamo imparato persino a fare i conti con i nostri limiti. Io con i suoi, lui con i miei. L’ideale sarebbe stato fare i conti ognuno con i propri limiti, ma a quello non ci siamo ancora arrivati.
A furia di mettere da parte, senza buttare mai nulla, lo spazio libero si è via via ridotto. Un’ansia non ascoltata che risuona come una bottiglia che si sta riempiendo: l’acqua sale di livello e quando arriva al collo il sibilo si fa acuto e il gorgoglio accelera.

Così dopo circa tre anni io e il mio computer ci siamo guardati e ci siamo detti: è ora di fare spazio, di buttare via qualcosa. È ora di decidere cosa serve e cosa non è davvero indispensabile. E allora via. Spostare la musica altrove. Togliere tutti i film che tolgono spazio. Le foto? Le foto sono sicuramente l’elemento più prezioso, quello che non va perso mai. Allora via: doppio back-up su due dischi diversi. Ma per uno strano sortilegio, quello spazio recuperato a fatica finiva per saturarsi lentamente ma inesorabilmente.

Alla fine ho deciso. Dovevo fare qualcosa di drastico. Bisogna ripartire. Tabula rasa. Riportare il fido portatile alla configurazione iniziale. Fare spazio, sfoltire, respirare. Respirare. Finalmente libero.

Ho portato in assistenza il portatile per un giorno ma la sera era di nuovo libero, leggero, pulito.
“Adesso non mi resta che ripristinare i dati e ripartire”, mi sono detto.
Così ho preso a copiare quello che avevo salvato altrove. Piano piano, osservando barre che ri coloravano, contatori che arrivavano a cento.
Tutto utile, necessario, indispensabile. E pensavo che la mia vita somiglia un po’ al destino di questo mio vecchio portatile.
Fare spazio, respirare, provare sollievo. E subito cadere nella saturazione del superfluo a cui non so rinunciare.
Penso questo e non riesco a togliere gli occhi dalla barra di riempimento. Che porta numeri sempre più alti, una saturazione che si avvicina sempre di più…

La moneta da cinque zecchini

zecchini

 

“Non serve mica avere tanti zecchini per essere gentiluomini”. Questo ripeteva spesso, quando era in vita, Messer Baldonazzo, padre di Bernardo de’ Baldonazzi. Anche nella famiglia di Sismondo dei Pancaldi veniva espresso, con altre parole ma con sguardi simili, lo stesso concetto. I giovinotti Bernardo e Sismondo crebbero entrambi lontani dal lusso, ma grazie al cielo anche lontani dalla fame più nera e vicini a insegnamenti pregni di buon senso.
Erano quasi adulti quando si conobbero e cominciarono a frequentarsi e a incrociare i loro affari. Una indefinibile affinità li portò a sentirsi simili e a fidarsi l’uno dell’altro. Ancora a bottega dai rispettivi padri, andavano come mercanti nelle piazze dei borghi vicini.

Quel sabato di fiera, a Sismondo capitò un buon affare. Si trattava di comperare uno stallone che valeva certamente molto più del prezzo che gli altri erano disposti a pagare. Un ottimo ritorno con pochi rischi, se solo si avessero avuti nella saccoccia tutti gli zecchini richiesti. Ma non era il giorno giusto e Sismondo aveva impegnato in altre adoperazioni tutte le monete a sua disposizione. Vedendolo in queste tribolazioni Bernardo si offrì di aiutarlo. “Mi fido della tua parola. Ti posso dare oggi la moneta da 5 zecchini che ti manca per il tuo affare. Me la renderai entro la Pentecoste”.
Sismondo si illuminò due volte: per vedere di nuovo tornare possibile il buon affare che pensava ormai sfuggito. E per il gesto di quel coetaneo che non aveva mai avuto l’occasione di chiamare amico.

Va però detto che la moneta da cinque zecchini era d’argento, mentre era d’oro quella da dieci. Ma quell’estate una improvvisa guerra in Dalmazia portò a una chiusura quasi totale dell’estrazione e del commercio dell’argento. Di lì a poco anche il re si vide costretto a mettere fuori corso la moneta da cinque zecchini.
Sismondo, che era uomo di principio, decise di restituire lo stesso il debito. Ma non avendo più nessuna moneta da cinque zecchini tra le mani, non potè fare altro che restituire la moneta da dieci zecchini.

Questo portò un leggero smarrimento in Bernardo che da creditore, passò di colpo ad essere debitore. Fece passare qualche giorno, in cui invero dormì poco e male, e decise di restituire a sua volta la somma di dieci zecchini.
Non era una rivalsa, non una vendetta. Non era neanche la volontà di puntualizzare. Era un limpido senso di gratitudine accompagnato dalla fiducia nel proprio interlocutore. Era una amicizia discreta che cresceva in dare e in avere. Che cresceva rinunciando intrinsecamente all’idea di saldo e di pareggio.
Passavano gli anni e questo avere e dare era diventata una consuetudine affettuosa. Ormai nessuno dei due aveva realmente bisogno di una moneta da dieci zecchini. Tantomeno da quella ormai introvabile da cinque.
Dopo molti decenni finalmente il mercato dell’argento riprese una certa vitalità e il nuovo sovrano decise di riprendere l’uso della moneta d’argento da cinque zecchini.
Ma nessuno dei due uomini aveva ormai interesse a estinguere l’antico debito. E continuarono, fino alla fine, a credere in un’amicizia fatta di fiducia e di disponibilità a dare ogni volta un po’ di più di quello che si riceve.

La scatola di Carlo

scatolone2Carlo se l’aspettava da un po’. Queste nuove leggi, questa riscoperta insicurezza, questi bilanci aziendali scritti in grigio. E poi lei, certo: questa crisi. Questo mostro senza faccia che anche se si fa vedere da qualche anno, sembra esserci da una vita. Fosse almeno un drago o un grifone o un’altra pagina qualsiasi di un bestiario medievale, almeno uno potrebbe cercare di affrontarla. Invece è fatta di polvere, di numeri, di ruggine. Di cancelli che chiudono e l’indomani mattina non aprono.
Carlo viene chiamato in una improvvisata sala riunioni da quel capo improvvisato che ha tanti anni meno di lui. Quando la porta si chiude il discorso è subito chiaro. C’è una lettera di licenziamento. Non serve neanche trovare una scusa. Carlo è dirigente.
Carlo torna alla sua scrivania e cerca le parole giuste per dirlo ai colleghi. Nelle prossime ore, nei prossimi giorni dovrà trovarle per la moglie, per i figli, per i vicini, per tutti. Oltre all’incertezza sul futuro, pesa questa ombra di colpevolezza. E non basta invocare la crisi e le logiche globali per spazzarla via.
Carlo mette senza fretta le sue cose in una scatola di cartone recuperata nel corridoio. Cose inutili, cose che non gli serviranno. Sembra la scena di un film americano, ma questa non è Holliwood. Certo che no.
Stacca due foto dal muro. Come erano piccoli i figli, qui. Stacca il badge dei congressi con il suo nome, il logo dell’azienda e delle convention per best performer.  Lo fa senza odio, senza sarcasmo. Non ha la mente abbastanza libera per trovarli grotteschi.
Si sforza di non pensare ai momenti belli vissuti in tanti anni di azienda. I successi, i colleghi, il mondo che cambia in fretta e anche il suo lavoro che sta al passo. Si sforza di non pensare a quando, fresco di laurea in ingegneria, si sentiva arrivato nel posto giusto.
Saluta i colleghi sforzandosi di sorridere. Capisce il loro imbarazzo fatto di frasi che cercano di essere rassicuranti. Stacca il suo biglietto da visita dalla cassettiera. L’aveva messo come targhetta. Non vuole lasciare traccia. Coerente per l’ultima volta con questa sua azienda che non vuole tracce.

Ma lui trema

alluminioPrima una breve telefonata. “Ciao. Quanti anni sono passati? Non possono essere così tanti. So che ti sei trasferito lì. Ci devo passare per lavoro. Dai che facciamo quattro chiacchiere, magari andiamo a cena assieme”.
Poi quando un appuntamento viene incastrato a martellate in due agende, finisce per prendere una forma strana.
Alla fine è diventato un caffè, in uno dei tanti bar che nella stagione giusta accolgono i turisti che si allontanano dalla stazione cominciando a cercare l’odore del sale.
Ma il nostro mare non ha acqua salata, ma è pieno di ricordi. Di anni passati a scuola insieme e di storie vecchie che, se fossimo così stupidi da raccontarle a qualcuno che non c’era, sembrerebbero insignificanti.
Ci squadriamo reciprocamente, senza badare troppo se si nota. Cerchiamo di valutare nell’altro come il tempo ha segnato il suo passaggio. Chili in più, capelli in meno, cose così.
Il tavolino di alluminio è stabile e pulito. Ci accomodiamo e lo noto quasi subito.
Lui trema. Si tiene le mani e non capisco se sia per nasconderlo o per cercare di controllarsi.
Ma lui trema.
Io fingo di non vedere, ma lui trema.
No, non può essere. Non tu, amico mio. Mentre parliamo di niente cerco di farmi strada tra quelle malattie coi nomi degli scienziati.
Parkinson, Alzheimer, chi era? Qual era quello più grave?
Vorrei scappare, vigliacco che sono. Vorrei avere le parole giuste.
Ma che cazzo gli dico a un vecchio amico che ha la mia età e che trema?
Siamo irrimediabilmente soli. Io con le mie parole che non ascolto e lui con il suo tremore. Comincio a coniugare la sua sorte alla prima persona singolare. E se fossi io? E se fosse toccato a me? E se toccasse a me?
Poi cerco di scappare in un comodo “Ma no forse è un’impressione, cosa ne so?”. Ma questo non convince neanche me.
Il nostro incontro dura poco, ma ben di più di quanto ci sia rimasto da dirci.
Riprendo il treno controllando il posto sulla prenotazione.
Mi metto le cuffie cercando una playlist che mi faccia dormire. Dormire e non pensare.
Ma lui trema.

Circolare

circolareDaniela aveva proprio il dono della sintesi. Scriveva in modo preciso, perfetto, appuntito. Proprio perché Daniela interpretava la sua vita in modo preciso, perfetto, appuntito.
Daniela è cresciuta nell’era di internet e dei social network. Così, quando sono nati i blog, le è sembrato naturale piantarne uno. E poi è stata brava a farlo crescere. Senza troppi concimi chimici, ma ricordandosi di dare acqua spesso e una bella luce diretta.
Quando poi si è diffuso twitter, Daniela è entrata e subito quella strana costruzione è diventata casa sua.
Daniela, infatti, non ha mai avuto ripensamenti da rampa delle scale. Quelli che ti fanno venir voglia di tornare indietro a dare le risposte giuste solo quando la discussione è chiusa a doppia mandata. No, Daniela è sempre stata veloce, pronta, reattiva.
E in questo mondo nuovo si è fatta notare velocemente. Rapidità, spirito, forse anche spregiudicatezza. Il tutto servito su un letto di cultura che non si vede ma si intuisce, lì sotto.
I suoi discepoli, che queste nuove religioni chiamano lettori o seguaci o follower, crescevano di giorno in giorno. Questo portava le sue parole a diffondersi sempre più velocemente. E portava la sua fama a crescere. E la sua credibilità a rafforzarsi. Ad avere una visibilità via via maggiore. E ad avere ancora più discepoli. In un efficace meccanismo circolare. Circolare.

Quello che era un gioco da fare nei ritagli di tempo, a un certo punto ha smesso di esserlo. Daniela è presente di giorno, è presente di notte, è presente. Parla di sciocchezze, magari, ma convince.
Qualcuno la nota, le propone di fare cose nuove. In radio, in TV, su riviste di bit e di cellulosa. Daniela partecipa, non si nasconde. Non lo ha mai fatto, neanche nel mondo vecchio.
Questa metamorfosi non ha un momento chiave, ma quella che era una  piacevole perdita di tempo si trasforma in occasioni, offerte, opportunità. Un lavoro. Un lavoro vero. Un lavoro di quelli che non puoi averli sognati, perché prima non esistevano.
Inizia questo lavoro e ci  si butta davvero. Col cuore e col corpo. Con quel tutto o niente che tanti lettori le invidiano. Una lavoro che l’assorbe molto. Viaggi, sere, weekend. I tempi della TV non sono quelli di un ufficio. Piano piano non trova più il tempo per twitter.
L’appagamento per questa nuova vita le regala un’esaltazione che la porta a sorridere di più. A rispondere in modo entusiasta anche ai “Come stai?” più distratti. Un’esaltazione piena e rotonda. Circolare.

Inevitabilmente la frequenza dei suoi interventi nei social network si dirada. Ormai li usa come una rubrica del telefono per salutare qualche amico, magari dal treno. Ma non è come prima. Il blog, e chi ha tempo per il blog?
Il lavoro così intenso la porta ad avere un eccesso di acido lattico esistenziale. Deve un po’ rallentare, lo sente. Si prende un po’ di tempo, qualche pausa.
Ma chi l’ha conosciuta nella fase di massima accelerazione nota questo rallentamento. I nuovi lavori vengono affidati ad altri. Non c’è calcolo, solo istinto. Le occasioni si presentano meno, tanto che Daniela cerca di capire, di razionalizzare almeno.
“Dopo questa pausa” – di dice – “ripartirò da dove mi sono fermata. Un passo indietro e due avanti”.
Riprende il blog in mano. Scrive cose belle ma sono pochi i lettori di un tempo. “Ma come, non è passato nemmeno un anno dall’ultimo post?”
Riprende twitter, i social network. Dice cose per lo più ignorate. I commenti che riceve le sembrano una risposta meccanica, di rito. Non sopporta più questo modo di comunicare. E si vede. È presente, ma il suo animo è diverso. E questo la porta ad un distacco progressivo, che lei stessa alimenta senza accorgersene. Una spirale di cui lei alimenta la spinta centripeta. Circolare.

Ormai non cerca gli amici e aprire il PC è una pena.
Non capisce dove, non capisce quando. Guarda quella bottiglia di whisky che è restata sul mobile della cucina. È lì da quando le feste finivano così. E lei ne era la regina.
Si versa un bicchiere, poi un altro. Cerca di piangere e non ci riesce.
Vuole ricominciare, vuole uscire da questa spirale. Cerca un brivido, uno spunto, un appiglio. Una scossa. Vuole.
Esce dalla porta finestra che dà sul terrazzo. Appoggia il bicchiere e si sporge. Cerca nelle vertigini, forse, quella scarica di adrenalina per ripartire. La volontà o l’alcol spostano il suo baricentro in modo pericoloso.
Quaranta minuti più tardi, sotto casa sua un lenzuolo esce dal bagagliaio di una pattuglia dei carabinieri per coprire quello spettacolo.
“Non c’è niente da vedere. Circolare!”
Circolare.

Chiudere

chiudereArriva un momento in cui ci si trova davanti a troppe cose aperte.
Ci sono porte socchiuse che conviene accostare.
Ci sono barattoli che conviene sigillare, anche a costo di di doverli riaprire un po’. Facendo i conti con il bordo caramellato. Per poi chiuderli bene. Senza pensare a quando dovremo riaprirli.
Ci sono bozze da trasformare in testi. Dando un corpo, una coda, un ritmo, un finale. Una piccola botta sulla schiena per farli camminare. Per vedere se, vinta la paura del primo passo, sanno stare in piedi da soli.
Ci sono occhi da chiudere per renderci conto, non solo in teoria, che anche al buio i mostri non esistono. Ci sono luci da spegnere. Ci sono ansie da tenere lontane.
Ci sono vestiti da riporre. La stagione giusta è finita. Magari non è il freddo che avanza e tanto poi ritornerà. Magari è la stagione nostra che cambia. E quei panni non sono più adatti.
Ci sono subordinate da chiudere, parentesi da chiudere, virgolette da chiudere. E non è pignoleria grammaticale. E’ farsi capire. Non indugiare in una specifica di troppo.
Ci sono amicizie da archiviare, magari con una spiegazione. Un saluto benedetto da un sorriso, niente di teatrale, per carità.
Ci sono finestre da chiudere ché sta arrivando il freddo. Indugiando solo un po’ guardando gli storni che disegnano nel cielo le loro paure a forma di bolle nere.
E dopo tutto questo chiudere capire che abbiamo fatto lo spazio per aprire qualcosa di nuovo.

una sedia bassa

Oggi ti mettono sotto terra. Per modo di dire. Perché ormai la terra è un bene di lusso e adesso usano formule grammaticali e architettoniche che sanno di artificiale. Non seppelliscono: inumano. Non scavano una fossa, aprono una cella. Che scherzo per te, che la terra è stato il tuo lavoro tutta la vita.
Io adesso abito lontano e questa è anche la settimana sbagliata per farti un ultimo saluto. Dovevo farlo prima, quando tu, vecchio, aspettavi ogni visita come un regalo.
Ma io avevo da fare. Avevo giovani da vedere, golene da respirare, argini da correre, biciclette da gonfiare, bambini da far giocare. Tutte cose migliori che andare a trovare un vecchio.
Sappi però, che nel mio individualismo giocato da lontano, una frase mi è restata.
“Simone: la vita l’è na stüpidada!”
Una frase lanciata così. Detta con leggerezza, ma seguita da una pausa triste e lunga come una vita.
Una stupidata.
E io che mi chiedevo come mai potesse essere definita così, una vita. L’avevo sentita paragonare a una ruota, a una scala, a una giornata, a un sogno. Ma a una stupidata mai.
Seduto su quella sedia bassa, con le gambe tagliate per usarla per mungere, ci stavi bene. Era fuori dalla stalla, anche quando non avevi più vacche da mungere. Quasi a segnare il territorio. Era un lume acceso sulla finestra. Diceva “vienimi a trovare”. A tutti.
Aspettavi visitatori. Parenti, conoscenti, passanti. Aspettavi che ti raccontassero le storie, i pettegolezzi, i frammenti di quelle settimane.
Io e Marino ogni tanto passavamo. Qualche volta venivamo da te a guardare la tappa del Tour, quando eravamo lì in luglio. Guidone, lo chiamavi, come Bontempi. Ma allora il nostro gran premio della montagna era la salita dell’argine. Il tuo gran premio era già la vecchiaia che era arrivata e ogni tanto ti staccava in salita.

Poi ci sei arrivato ai novanta anni. Che neanche tu l’avresti mai detto. Cerca di farti bastare quella cella, anche senza la tua terra e anche senza la tua sedia bassa. Vengo a salutarti, quando passo di lì.
“La vita l’è na stüpidada”. Adesso lo intuisco.

Dubbi senza cloro-fluoro-carburi

Mini bomboletta di Schiuma da barba ProrasoSono in vacanza. Ho una di quelle bombolette di schiuma da barba da viaggio. Una di quelle che ti danno l’idea di essere saggio, perché hanno un volume molto minore delle altre. Risparmio vanificato ampiamente dai, magliette e tuta da ginnastica in più. Che alla fine di una vacanza escono dal fondo di una valigia inutilmente carica. Si stropicciano gli occhi. Si stirano le rughe e dicono “Ma almeno una volta potevi indossarci!”.

La mini bomboletta di schiuma da barba è di marca Proraso. Emolliente, rinfrescante, e un altro paio di aggettivi poco convinti che il responsabile marketing ha copiato dai concorrenti. Ma mi piace, esteticamente. E’ verde scuro con qualche scritta bianca e verde chiaro. Senza effetti speciali argentati. Senta colori rosso acceso. Senza evocare isole tropicali. E’ una schiuma da barba che fa la schiuma da barba.

Quando era nuova, ne spruzzavo una dose generosa sulla mano destra e la spargevo sul viso. Dopo averlo inumidito e massaggiato pensando ad altro.
Ma a mano a mano che la bombola si fa più leggera, comincio a essere misurato nella dose. Non voglio finirla. Non voglio restare senza. Non voglio sprecarla troppo in fretta.

Io comunque lo sapevo dall’inizio, che sarebbe finita. Ma nonostante questo l’ho sprecata. Senza rifletterci. O peggio: pensandoci, ma senza avere il coraggio di comportarmi nel modo giusto. Penso queste cose e sorrido. Proprio adesso che il gas non ha più schiuma da spingere fuori e fa un FIUUUU..FLR…FRL…FRL…FSSSssss.

Penso a come questo mio atteggiamento verso la mini bomboletta di schiuma da barba Proraso assomigli al mio atteggiamento verso la vita. Verso una vacanza, verso un’amicizia, verso un affetto. Che mi accorgo di non aver vissuto bene solo quando è vicino a fare uscire solo gas inerte. Senza cloro-fluoro-carburi.