racconti

Il riverbero della fiamma

 

Che bello il riverbero della fiamma. Mi è sempre piaciuto lasciarmi ipnotizzare dai suoi movimenti fluidi e nervosi. Vedere gli sbuffi di fumo uscire dagli sterpi troppo poco secchi, quando il calore strizza l’umido tra legno e corteccia. E soprattutto la sua forma che non ha ritmo, non ha forma, non ha intensità. Ti grida in faccia che non ci sono schemi, non c’è un disegno.

Ci ho provato a rimettermi a scrivere. Ci ho provato anche oggi. Pensavo fosse quella la mia strada o almeno un passabile anestetico. Ci ho provato ma ogni volta quello che resta impigliato al foglio è troppo poco. Non immagino davvero come possa un improbabile lettore, restare suggestionato da quelle parole. E sì che quando mi sono venute in mente mi sembrava tutto inevitabile. Mi sembrava un’emozione potente, necessaria, consistente. E a me non restava che fare l’ultimo banale passo: guardarla in faccia e descriverla senza snaturarla troppo. Basta rispettare la sua natura, pensavo: compito da oscuro impiegato del catasto. Serve solo puntiglio, nessuna arte. È così forte, mi ripetevo cercando la metà mancante della convinzione, che se anche il mio scrivere è inefficace, resta comunque dirompente. Ed è così che ancora una volta ho preso in mano il foglio, la penna, il momento. E ho buttato giù tutto, senza fermarmi.

Rileggendo da capo, poi, all’inizio mi sembrava che girasse. Aveva parole da limare, certo, ma sembravano poche. Aveva dentro quel tremore, quella indecisione che rende tutto veritiero. Quelle crepe, sì: crepe. C’era come una grossa crepa che dal margine superiore del foglio si inoltrava verso il basso. Diramandosi e diventando profonda, decisa, ineluttabile. Ma nel seguire verso il basso quella crepa narrativa, la vedevo trasformarsi in crepa logica e poi persino in crepa fisica. Fino a quando mi trovavo in mano un solco così profondo da far franare tutto il testo, inghiottendolo.

No, non è così che doveva essere. Non è così che volevo. E seguendo quella spaccatura, il foglo diventa ancora una palla leggera che finisce nel fuoco. Poco distante da dove speravo di vederla atterrare, ma abbastanza da invitare la vampa ad abbracciarla. La vedo dopo un po’, vinta dal calore di quella vicinanza, che si circonda di fumo e poi di colpo fiamma. E in quel momento dà una botta laterale alla forma calda e ne entra a far parte, spostandone l’equilibrio. Ancora una volta una storia inevitabile è finita lì. Mi godo il tremolio dell’ombra sui muri bui. Cerco invano di vederci una selettività, una ricerca, uno spirito critico, una scelta romantica. Ma vedo solo ombre di mobili.
Che bello il riverbero della fiamma.


L’immagine è un dettaglio di “Rut”, illustrazione di Veronica Leffe per il racconto omonimo contenuto in “Ma l’amor mio non muore” di Pier Paolo Di Mino.


Quella luce fuori dalla scuola

luce mattutina

Nella massa artificiosamente sorridente dei genitori che aspettano la quotidiana apertura della scuola ci sono anche loro.

Lui in giacca e cravatta, uno scooterone di chi deve saperla lunga e i capelli più in ordine di quanto il casco appoggiato sul sellino potrebbe far supporre. Parla con calma con suo figlio e si vede che il figlio è abituato a quella serenità.

Lei porta con eleganza un paio di pantaloni con una pieghina che sulla maggior parte delle altre donne starebbe malissimo. Ha lineamenti delicati e un naso sottile. Due occhi scuri e dritti come un orizzonte. Ha il cellulare in mano, assieme alle chiavi della sua utilitaria di moda, ma non lo guarda. Non lo guarda mai quando parla con suo figlio. Mai: neanche quando arriva una notifica. Ha persino scelto il livello più basso di vibrazione e nessun tono. E questo dice molto di lei.

C’è una luce strana stamattina e qualcosa succede. Un raggio che nessuno ha calcolato colpisce lui e i fotoni che rimbalzano arrivano agli occhi di lei. Lo aveva visto anche nelle settimane precedenti, certo. Ma mai guardato. Ma quel raggio quasi parallelo all’asfalto del parcheggio e quest’aria che ricorda un altrove evocativo le suggeriscono un ricordo. “Eppure io l’ho già visto” comincia a pensare distogliendo gli occhi, ma continuando a guardarlo a mente.
Anche lui la nota: come avrebbe potuto non accorgersi di quello sguardo appuntito. Un attimo di disagio, passando in rassegna il comportamento degli ultimi minuti, il parcheggio del ciclomotore, i contributi volontari pagati. Poi, escludendo ogni possibile colpa, il disagio prende la forma di una lusinga. “Chissà perché mi guarda.” E senza accorgersene si mette in posa.

Le rivolge un’occhiata, fingendo di incrociarla solo allora e la saluta accennando un sorriso.
Lei risponde con lo stesso gesto speculare, intanto che il tarlo lavora dentro “Ma sì, ne sono sicura. Al lavoro? Un vecchio compagno delle medie. In coda dal pediatra? Dove l’ho conosciuto?” Ma niente. File not found.
Presa da questi pensieri non si accorge che lui si è girato e le sta rivolgendo la parola.
“Certo che non aprono neanche un minuto prima della campanella!”
“Come?”
“I bidelli, dico. Aspettano la campanella per aprire. Neanche un secondo prima”. Si rende conto della stupidità della frase. Quasi vorrebbe non averla detta. Ma lei, che ha un ottimo pretesto, dopo che lui ha rotto il ghiaccio, riprende: “Chissà che consegne hanno. Protocolli, responsablità, circolari…” . E subito riflette “Che scema sono. Davvero ho detto consegne? Ma che razza di parole…
Ma lui sorride, rassicurato dal salvataggio inaspettato. Adesso anche lui è sicuro di averla vista e cerca di capire dove. Certo che è proprio bella lei. Già a quest’ora ha un qualcosa che…

“Ma noi non ci siamo già visti?” Taglia corto lei.
“Sì mi sembra di sì…” risponde lui perplesso
“Forse al nido la pentola d’oro…” azzarda lei.
“No, non lo conosco. Ma forse ci siamo visti a una riunione di condominio”

Lei cerca di scorrere l’elenco dei condomini delle ultime case che ha abitato, ma non gli sembra che somigli a nessuno dei vicini. Poi d’improvviso una traccia. Lui era il nuovo amministratore che prendeva il posto di Pillozzi. E lei aveva la delega dei suoi genitori che avevano contestato fermamente il passaggio al riscaldamento centralizzato. Per ripicca avevano smesso di pagare i lavori. Quell’assemblea aveva preso una pessima piega e l’amministratore aveva prospettato azioni legali. Lei allora aveva risposto offesissima, come se le si desse della pezzente. Lo aveva odiato. E quanto. Da quella volta non si era mai più fatta incastrare da una riunione di condominio. Quanto lo aveva odiato! Quanto!

E adesso sente il divario assurdo tra questa suggestione mattutina e quell’odio passato. Si vergogna di essere lì e di tutto, anche dei pensieri che non ha fatto in tempo a fare. La situazione si fa gelida. Si salutano con un sorriso ingessato e un “Buona giornata” che sa di uscita di sicurezza.
Ognuno dei due resta sollevato da quel distacco. E parallelamente ragionano su come è strana la vita. Sul fatto che certe persone, prese in altri contesti, sono davvero altro.

Effetto Doppler

doppler

Mi avvicino a questo passaggio a livello (con barriera) e la sbarra sta scendendo. La vedo da lontano. Più veloce di quanto pensassi. Io che vivo in città mica ci sono abituato a queste scene. A dire la verità non sono neanche sicuro che sia la strada giusta. Da quando abbiamo i navigatori in auto abbiamo perso la consapevolezza dell’itinerario. Siamo solo preparatissimi a quello che avviene dopo la prossima curva. E di solito è uno svoltare a destra, tenersi sulla sinistra, proseguire per via qualcosa…

Mi aspetto il treno che non arriva, c’è un sole che non si è ancora arreso alla fine del pomeriggio. Ma forse ha ragione lui, sono io che ragiono col calendario invernale. Il treno non arriva e inizio a pensare a te a cosa ti direi, a come te ne sei andata. Che quando era il momento ti avvicinavi a me e ti sentivo squillante, fresca, affascinante. Poi quando sei andata via hai cambiato tono. Tutto mi sembrava cupo, come se fosse sempre stato cupo, cupo fin dall’inizio, tutto filtrato su tinte sbiadite e poco contrastato. E ancora non mi spiego come è stato, come abbiamo fatto, come?

Ma tu non ci sei e queste cose me le racconto da solo. Aspettando un treno che ancora non arriva, una sbarra che ancora non mi libera la via. Tanto non saprei neanche come dirtele, tanto non sarei libero: continuerei a pensare a come prenderai quello che ti sto dicendo. Finirei per dirlo male

Finalmente arriva il treno e per qualche strano rito suona la sua sirena, accivinandosi al passaggio a livello. FI FI FI FI FI FOO FOO FOO FOO. Sì, proprio così dei colpi di sirena, tutti uguali che prima suonano alti. FI FI FI FI squillanti, freschi. In un certo senso vivi e affascinanti.

Poi scivola veloce davanti e il suono si fa cupo FOO FOO FOO.

È l’effetto Doppler, dicono. Il cambio di tonalità è colpa del fatto che la sorgente del suono si muove rispetto a chi lo ascolta e questo cambia la lunghezza d’onda percepita e il suono cambia e bla bla bla.

Passa il treno ma tu non ci sei. Anche questa sirena del locomotore è un po’ come te. Allegra e squillante quando si avvicinava e cupa dopo. Ma queste cose, se fossi qui, non te le racconterei. Cosa vuoi che te ne freghi dell’effetto Doppler!

 

 

Il seme

Stefania D'Elia Nonno Mandela e l'albero della libertà

Qualche mattina fa, prima delle otto, stavo uscendo di casa quando Francesca mi dice “Ah, dimenticavo: ieri è arrivato questo pacchetto per te”.
“Un pacchetto? Per me?”
Lo prendo e leggo l’indirizzo: sono proprio io. È poco voluminoso, mi viene in mente come un’illuminazione: deve essere il libro su Mandela! Anzi no, non proprio su Mandela, ma che insomma…
Apro il pacchetto, è lui. Rimetto a posto e esco di casa con un sorrisone.

In novembre sono stato a Bolzano dove ho raccontato ai blogger che partecipavano a BdiBlogger l’importanza dell’umorismo nella scrittura. Non solo le battute, ma sentire l’emozione di quello che si sta scrivendo.
Una delle partecipanti, Stefania, mi ha contattato poi su facebook chiedendomi il materiale del corso.
Dopo poco mi ha raccontato che era contenta perché stava per uscire un suo libro. Un racconto illustrato per bambini, ispirato alla vita di Mandela. Le ho chiesto se fosse distribuito e lei si è offerta di mandarmelo. A direil vero me l’ha anche mandato subito, solo che, grazie alle simpatiche poste italiane e alle feste di Natale, è arrivato circa quaranta giorni dopo.

L’ho sfogliato e le illustrazioni erano davvero evocative. Parlavano il linguaggio semplice dei bambini, parlavano di Africa, parlavano di libertà.
L’ho letto a Federico, mettendolo a letto. Il libro in realtà parla di un albero, l’albero della libertà, che cresce nonostante alcuni uomini la vogliano tenere all’ombra. Ma è più forte, segue la sua natura, cresce piano ma inarrestabile.

Prima di addormentarsi Federico mi ha chiesto di raccontargli storia di Nelson Mandela, quello vero. Gli ho detto qualche frase semplice e mi sono ripromesso di raccontargli una storia più completa.
Ho sorriso e ho spento la luce di Federico. Lui era tranquillo, io ero tranquillo. Ecco: in quel momento ho avuto la consapevolezza che il seme della piantina germogliava, anche in casa mia.

Portamici

scooterone2

Lui il giorno dopo la chiamò. Ci mise un attimo di troppo a fare il numero, assaporando quel timore da quindicenne, timore che aveva dimenticato da tempo.

Sai quel discorso che abbiamo fatto ieri? Quando dicevi, andando fuori tema, che ami questa città, che è perfetta per girarci in moto di notte? E ti ricordi quel mio “Portamici” detto con calma sorridente, come se fosse un destino?
Mi è tornato in mente stanotte. Non ho ancora deciso se ero sveglio o se dormivo, se stavo fantasticando o sognando. Ma poi è davvero importante? Ancora non so come mi sia uscito quel portamici, detto così, senza pensare alle conseguenze. Mi è sembrata la parola perfetta da dire di istinto, senza altre parole, senza conseguenze, senza calcoli.
E quel discorso mi è restato impigliato da qualche parte della mente. E stanotte ho sognato (credo) una cosa bellissima. No, non ridere. Ma te lo voglio raccontare.
Ho sognato la continuazione di quel “portamici” imprevisto. Ho sognato che mi portavi in giro in scooter e che sentivo distintamente alcuni profumi e odori di Roma di notte. Poi (non ridere) allargavo le braccia come per prendermela tutta questa aria, questa città. (Ok, nella realtà saremmo caduti, ma nei sogni le leggi della fisica fanno un po’ come ci pare, quindi non pensare agli equilibri e seguimi). Ad un tratto ti facevo un cenno e tu (inspiegabilmente) capivi e accostavi.
Ti dicevo che avevo sentito l’odore di Roma vuota, l’odore di polvere di strada stanca, l’odore di acqua di fontana. Come fosse un elenco da spuntare, un elenco perfetto. E aggiungevo che me ne mancavano ancora alcuni importanti. Volevo sentire l’odore dell’estate che finisce. L’odore del lavoro della gente. L’odore di un sorriso senza pensieri.
E su questo ripartivamo, come alla ricerca…

Lei sorrise. Gli disse democraticamente che tutto questo sogno era molto bello. Che in quel momento non aveva tempo.

Lui sentì benissimo che lei aveva usato la parola sogno. Capì che lei, quella storia, la aveva confinata nel campo di esistenza dei sogni. Sorrise realistico (forse con un sorriso leggermente meno largo) e la salutò con gentilezza.

Lei rimise il telefono in una tasca. Ripose anche l’indugio. Forse nella stessa tasca. Si infilò il casco e partì.

Incrocio perfetto di sguardi

incrociodisguardiNon so dire di preciso quanto tempo sia passato da quel giorno. Ma mi ricordo ogni singola immagine come fosse adesso.
Ero in una grande libreria del centro a chiedermi, ancora una volta, come possano essere venduti i libri. Un libro è una storia che capisci solo dopo che l’hai letta. Quello che compri è una copertina, una recensione, una suggestione furbescamente instillata da una quarta di copertina. Per questo tutti i romanzi, tutti i saggi, tutti i libri in fondo sono un gioco a fidarsi, un appuntamento al buio in cui senza ammetterlo, speri di trovare una luce. Forse è per questo pensiero rugginoso che finisco sempre per comprare manuali, guide e fumetti. Li apri e capisci quanto una scheda sui ditteri o sul Rondone di torre sia accurata oppure approssimativa. Non c’è suggestione, non c’è promessa da mantenere. Dei fumetti puoi a colpo d’occhio capire il tratto, come si riempiono gli spazi, lo sguardo del disegnatore. Ci sarebbe da dire che poi quelli che restano in mente sono quelli che sorprendono per la storia, che chi compra i fumetti in libreria si sente un illuminato molto più dei lettori di romanzi, ma forse non è questo il punto.
Il punto, anzi il momento è quello che sto per cercare di descrivere.
Mi cullavo tra il fastidio e la lusinga di questi ragionamenti e intanto scorrevo file e cataste di libri cercando qualcosa da portare a casa.
Dopo aver preso l’ennesimo libro freddo in mano, cercando di convincermi che era quello giusto, alzai gli occhi.
Dall’altra parte dell’isola di libri lei stava facendo lo stesso. O almeno così mi sembrò. Ma di sicuro alzò gli occhi nello stesso istante e riconobbi quello sguardo. Il mio stesso identico sguardo. Anche lei se ne accorse. Si accorse di questa insperata identità.
Per un attimo il libro che avevo in mano non aveva più nessun valore e al tempo stesso era l’unica cosa che contasse.
Lei aveva un vestito scuro, leggero. L’estate le concedeva spalle scoperte, collo lungo, occhi affilati. Mi puntava contro, senza ostilità, un sorriso pieno di consapevolezza e senza l’ombra di compiacimento.
Io avevo una polo che forse qualche anno prima, in qualche altro posto, poteva anche essere stata di moda. Il sorriso invece era formidabilmente calmo e pieno. Tanto da convincere anche me.
In quell’attimo capii, capimmo, che il nostro modo di guardare era lo stesso. Lo stesso modo di vedere le cose, lo stesso taglio di sorriso. Adesso, a spiegarlo, mi sembra un ragionamento incomprensibile. Ma aveva dentro il tutto e il niente. Il sempre e il mai. Proprio gli stessi sempre e mai che ho sempre messo in dubbio.

Ho cercato di fretta qualcosa da dire, ho frugato in fondo, ci ho provato davvero. Ma ogni frase mi sembrava inadeguata, di fronte a quei due sguardi che erano restati sospesi, agganciati  in modo così perfetto.
Ho portato quel libro alla cassa, come se l’avessi scelto in modo consapevole, e sono uscito.
In fondo ero felice di non essere riuscito a graffiare la perfezione sospesa di quell’attimo con una frase qualsiasi. In fondo è stato davvero unico uscire da quella libreria e da quello sguardo senza arrendermi a una storia iniziata e finita con la parola “non”.

La maledizione del malpensiero

cavalli
Da quasi tre mesi l’esercito di Alborellone di Fellonica stringeva un assedio poco convinto. Per questo la corte del conte Buris era invasa da tutti gli abitanti del circondario. Le provviste di farina, di acqua e di noia non mancavano. E visto che gli assedianti passavano gran parte delle loro giornate a caccia o a ubriacarsi, c’era modo di uscire quasi tutti i giorni dalle spesse mura del palazzo per rifornirsi negli orti circostanti di verdure e patate.
Ma i turni di guardia erano serrati, i lumi delle sentinelle sulle torri erano sempre accesi e la tensione si faceva vedere.
Un giorno una vecchina scura, storta e maleodorante si presentò alle porte.
“Fatemi entrare, ho fame. Sono una guaritrice: posso esservi utile”
“Va’ via, vecchia!” fu la risposta del secondo arciere.
“Fatemi entrare vi dico”
Dopo molte insistenze venne chiamato il capo delle guardie, infastidito dal dover interrompere la sua mano di dadi.
“Va’ via, vecchia!”. Senza saperlo ribadì il concetto pigramente esposto dai suoi sottoposti. Ma dopo un’altra mezz’ora di insistenza, la vecchia ottenne di parlare con il capo della guarnigione, il generale Panozza.
“Andatevene via, vecchia!”. I gradi imponevano una forma più formale, ma la sostanza rimaneva la stessa. Anche l’insistenza della vecchia era la stessa. Tanto che ottenne di parlare con signorotto del posto.
Il conte Buris, seccato della richiesta, si recò sugli spalti imprecando.
“Va’ via, vecchia!” Inventò il Signore, dando grande soddisfazione a tutti i suoi strati di sottoposti.
Dopo una decina di minuti di insistenza e non avendo nessuno a cui scaricare la grana disse. “Mandatela via, a sassate se serve!”
Qualche divertito lancio la convinse ad allontanarsi dalla corte. Ma andandosene tirò fuori una polvere di moscerini e disse “Questa corte sia maledetta e tu, stupido signorotto, vivrai la malattia del malpensiero!”
L’infittirsi della sassaiola fu più convincente di un ennesimo “va’ via vecchia!”
Dopo quell’episodio, il conte Buris restò di cattivo umore tutto il giorno.
Il suo carattere era da sempre ostile e brontolone, quindi dapprima nessuno notò un cambiamento. Ma giorno dopo giorno tutto peggiorò.
A causa di quel barbaro assedio di un esercito di pezzenti, oltre al conte Buris e alla sua famiglia, il castello ospitava anche altre tre famiglie di altri conti Buris, provenienti da altre contee del regno. Per evitare discussioni i conti Buris si accordarono per alloggiare ognuno in uno dei quattro angoli del castello quadrangolare. Vista la parità di rango le questioni non potevano essere risolte nel consueto modo sbrigativo. E vista la parentela non era ammesso regolarle con un duello.
Un giorno il cavallo del “nostro” conte Buris si slegò e andò a depositare il contenuto sminuzzato e elaborato delle proprie viscere equine nell’angolo sbagliato. “Cosa volete che sia!” disse saggiamente il conte padrone di casa, incurante delle osservazioni dei suoi consiglieri.
Per una sfortunata coincidenza due giorni dopo successe lo stesso, con un cavallo di un conte Buris di quelli ospitati.
Il padrone di casa andò su tutte le furie. “Non può che essere un atto deliberato”
“Ma signor Conte, è un caso! E’ successo anche al suo cavallo qualche giorno addietro!”
“Ma come un caso?!? Siete d’accordo forse con loro? Volete sommergere la mia reggia di letame? Siete tutti contro di me!”
E più si cercavano spiegazioni logiche ed equilibrate, più il signorotto di intestardiva nella sua tesi irrazionale.
Nessuno più ricordava la maledizione del malpensiero, ma forse qualche cosa aveva lasciato.
Gli assedianti seguirono altri tesori e altre zone di caccia, prima che l’inverno li potesse sorprendere ancora accampati.
I conti Buris in prestito tornarono nei loro castelli di campagna promettendo gratitudine così eterna da sembrare finta.
Ma il padrone di casa non indietreggiò da questo atteggiamento che cercava provocazioni in ogni respiro di mosca.
Figli, consiglieri, sudditi, soldati: tutti erano bersaglio quotidiano delle sue rimostranze.
“Se hai posato questo calice in questo modo è perché sperassi che mi facessi male”
“Se mi consigli in questo modo è solo perché speri nella mia disgrazia”
“Se dite di voler fare ragionare vostro padre è solo perché sperate di vederlo impazzire e di prendere tutto il regno prima del tempo”
“Se…”
“Se…”
“Se…”
In poco tempo il conte Buris si ammalò di tutto questo grigiore che portava dentro. Furono chiamati i migliori dottori e sapienti del regno, ma non volle ascoltare nessuno, tanto era sicuro di una qualche manovra per sbarazzarsi di lui.
Morì anni dopo. A dire il vero morì vecchio, molto vecchio per quei tempi e per la vita che si faceva.
Ma a lungo i biografi dibatterono se contare gli ultimi anni. Quelli in cui aveva rinunciato a confrontarsi con gli altri e preferiva vedere minacce e provocazioni ovunque.

L’importanza di scrivere poco

tempoMi sono ricreduto. Attribuivo agli scritti lunghi, ai romanzi prima di tutto, una dignità maggiore. Pensavo che i racconti fossero una specie di virus attenuato della letteratura. E che gli aforismi fossero una forma comoda al massimo per far entrare una frase di senso compiuto in una soluzione della settimana enigmistica.
Invece no. Vedo autori che fanno della sintesi un’arte.
Anche io ci provo, più che altro per pigrizia. I romanzi lunghi non li finisco, mi annoiano prima. Figurarsi a doverne  scrivere e rileggere.
Ci sono invece frasei secche di poche battute che riescono a raccontarti una storia, una sensazione, una filosofia. No, non un pezzo di qualcosa che sa di filosofia: proprio una filosofia. Tutto un sistema, un approccio alla vita.
E poi, non ricordo in che circostanza lo dicevo, un aforisma è democratico. Ti ci puoi confrontare subito, senza tanto sforzo. Il romanzo è un esercizio di arroganza. Pensi davvero che quello che tu scrivi valga tante ore del mio tempo? Ma non pensi anche tu che il tempo, il mio tempo, sia la cosa più preziosa?
Allora meglio leggere mille pensieri da centoquaranta caratteri che un libro di centoquarantamila. Con dentro, a cader bene, un solo pensiero valido. Anche questo tempo, fatto di tante vite vissute tutte assieme, non ci lascia troppo tempo per la lunghezza, per la ripetizione. Meglio capsule di ragionamento intradermiche.
E poi… no basta. Se argomento troppo contraddico questa lode alla brevità.
E non ti voglio fare perder tanto tempo per spiegartelo. Fidati: va bene così.