Silvia, nel suo ingombrante pudore da primogenita osservò: “Ma… in una scatola di latta?”
Tommaso, il secondo: “Beh, certo. Già che ci tocca fare questa roba. Almeno non farci proprio beccare…”
Agnese, come se fosse lì per caso: “Perché? Dite che è illegale?”
“Certo, Agnese, sveglia. Pensi che sia normale spargere le ceneri in un incrocio?”
Invece di rispondere, la piccola di casa, oramai cinquantenne, prese il foglio che le aveva consegnato il notaio. E rilesse per l’ennesima volta quelle grottesche istruzioni. Ma più che un rito postumo, sembrava la parodia di una caccia al tesoro.
“Chiedo che i miei figli Silvia, Tommaso e Agnese si presentino alle nove di una mattina entro due mesi dalla mia morte nell’incrocio di viale Unità d’Italia, all’incrocio di via Martiri di Belfiore. Non voglio altri invitati, non voglio riti particolari (le preghiere, a questo punto, le avranno già sprecate nei funerali ufficiali in chiesa). Chiedo che i miei tre figli portino con loro le mie ceneri, in quanto chiederò di spargerle, indicando il luogo esatto. Voglio però che siano presenti tutti e tre e che aprano la busta sigillata che ho consegnato allo studio del notaio Ferrara. In quel plico spiegherò le modalità e le motivazioni di questa mia richiesta. Pongo questo adempimento come condizione necessaria per avere pieno accesso alla mia eredità.”
Quante volte Agnese e Silvia avevano letto questa lettera: una la copia su carta, l’altra la copia inviatale via e-mail. A Tommaso era bastata una volta sola per liquidarla come l’ennesima sceneggiata di un egoista.
Tommaso tolse tutti d’impaccio e allungò il palmo verso Silvia, che teneva in mano la lettera sigillata dal notaio aspettando chissà che cosa. La aprì e, senza rendersene neanche conto, diede un’occhiata di insieme per valutarne la lunghezza. Immediatamente, senza chiedere permessi, iniziò a leggere.
“Eravate piccoli voi tre. Eravamo a metà degli anni sessanta, se ricordo bene. Io e vostra mamma era un po’ che avevamo sogni che puntavano in direzioni diverse. Mi è capitato di incontrare in ufficio una giovane impiegata. Era sposata e aveva un bambino piccolo. Un bambino con gli occhiali dalla montatura spessa e di cui lei mostrava sempre una foto che teneva nel portafogli. La prima volta che ci siamo dati appuntamento è stato qui, in questo incrocio in cui vi ho portato adesso che leggete questa lettera. Adesso che è troppo tardi perché possa provare vergogna o sensi di colpa che non ho mai provato. Ma sarei ancora in tempo per provare il riflesso del vostro imbarazzo. Lei era molto magra, anche più di quanto fosse di moda allora. Aveva una polo bianca, o forse di un azzurrino così chiaro da sembrare detersivo in polvere. C’era tanta luce e lei mi aveva raggiunto perché sapeva che sarei dovuto andare all’ufficio del comune per quella pratica inutilmente lunga che era allora il rinnovo della carta di identità. Le avevo detto del mio impegno al comune e le avevo chiesto se poi ci saremmo potuti vedere per un caffè. Non ricordo neanche bene come. Ricordo che non mi ha risposto, come mi aspettavo. Mi ha sorpreso invece vederla là. Aveva preso il numero dall’usciere e aveva cominciato per me la fila. A metà tra crocerossina e angelo custode.
No, non è stata la storia di un tradimento. È la storia di un amore mai sbocciato. E di un incrocio.
Dopo aver fatto la carta di identità siamo andati in quel bar dall’altra parte dell’incrocio. Qui c’è stata per decenni l’insegna “bar ristorante da Marinella”. Magari ve la ricordate anche voi.
Dopo il caffè abbiamo passato i pochi minuti ritagliati alle rispettive giornate parlando fitti fitti senza guardarci in faccia. Tanto che adesso non saprei neanche dire il colore di quella polo. Ma ricordo che era chiara, come erano chiari quei pantaloni larghi sopra e stretti in fondo. Aveva occhiali da sole con lenti larghissime, ma se li toglieva per parlare. Non voleva usarli per nascondere dietro quelle lenti sfumate la sua timidezza. Era coraggiosa, a modo suo. Siamo stati seduti così vicini da sentire sul fianco della mia gamba la cucitura dei suo pantaloni. Tutti e due facendo finta che fosse casuale.
Ci siamo sentiti per qualche mese, chiamandoci dalle cabine con molta, moltissima prudenza. Fino a quando la paura e i suoi sensi di colpa che non avevano avuto il tempo di crearsi motivi più solidi, ci hanno fatto dire basta.
Non ho mai capito se quel basta è stato perché si aspettasse di più da me o perché eravamo andati oltre.
Tenete conto che erano altri tempi, ma a dirlo mi sembra di essere vecchissimo. Così vecchio che tanto adesso che leggete queste righe sarò addirittura morto.
Per tutta la vita ho portato in me il segno di quell’incontro e di quel distacco. Ogni volta che mi fermavo al semaforo sempre rosso di questo incrocio giravo gli occhi verso l’insegna del bar e sorridevo. Quasi sempre dentro di me, poche volte fuori. Ma per tutta la vita ho custodito gelosamente questo sentimento. L’ho nutrito, l’ho annaffiato, l’ho rispettato. L’ho imbrogliato ricordandolo enorme, ma è stata una truffa piccola piccola, in confronto.
Vi chiedo scusa se vi ho costretto ad essere qui, oggi. Ma volevo raccontarvi questa storia. E volevo che su questo incrocio voi spargeste le mie ceneri. Non sulla tomba di vostra madre, che se ne avesse possibilità le vedrebbe come un fastidio.
Volevo andarmene raccontandovi questo che per me è stato importante. Scusatemi.“
Agnese in silenzio prese la scatola di latta dal sacchetto di tela.
Tommaso sorrise ironico “Ma cazzo: l’hai messo nella scatola dei biscotti di Frozen?”
Agnese non rispose e tolse il coperchio. Alzò leggermente la scatola e la ribaltò con gesto plastico giù dal marciapiede, come se si trovasse su un bastimento al tramonto o sulla cima di una montagna scalata con fatica e silenzio. Invece era solo un incrocio che puzzava di carta bagnata e di gas di scarico.
La cenere, per la quasi totale mancanza di vento, si ammucchiò disordinatamente per terra. Agnese diede un colpo alla scatola, come se avesse un qualche senso essere precisi nell’eseguire quel compito assurdo. Aggiunse solo un “Che stronzo”.
Tommaso fece una smorfia di assenso, risparmiando alle sorelle il suo prevedibile “l’ho sempre detto”.
Silvia invece non disse niente. Prese con dolcezza la scatola dalle mani di Agnese. La richiuse e la mise nel cestino a due passi dal semaforo.
Mise in modo inedito le mani sulle spalle dei fratelli mentre i tre si incamminavano verso le macchine lasciate nell’autosilo.
Molto bella, purtroppo.
Non ti leggevo da troppo, purtroppo.
Grazie quartop.
Bella ed intensa… sempre un piacere leggerti :)
Eh, ma i parenti non valgono :-)
Grazie Maro
Umpf
Lo sto traducendo in pallini di critica :-)
Mi vien su la tristezza.
Per noi cineasti indipendenti è una gran cosa.
Che meraviglia. Io poi ho un debole per le cose che finiscono ancor prima di iniziare…
“inizia che era già finito” :-)
Grazie
Mi piace. E qui, a quanto pare, i parenti valgono.
Marino ha sdoganato tutti. Grazie
Simone bello ritrovarti qua. Cucù.
cucù
Una bella idea…dovrei decidere bene il luogo però
( chissà come ,parole altrui ti portano nella tua storia e suscitano sentimenti..è bello)
Quando succede è bello davvero, sì :-)
Ieri sera ho pensato “che stronzo”, lo stronzo post mortem”. Questa mattina rileggendo ho provato tutt’altro, una dolcezza vicina a Silvia che, forse, già sapeva.
Non so se sapesse, i miei personaggi sono imperfetti come me.