donne

Ragazze che non invecchiano

giovanotte

Ero al ricevimento dei professori. Ci sono arrivato un po’ per caso, visto che di solito questa è un’incombenza che si prende Francesca. Ha orari più strani dei miei e quindi qualche mattina libera riesce a ritagliarsela. Ma stavolta ha confuso le date: ha preso un appuntamento in un giorno in cui poi non era libera. Quindi sono andato io. “Sono le medie, cerchiamo di iniziarle bene”, ho pensato.

Una bidella che sicuramente avrà un titolo molto più lungo e altisonante, mi ha fatto aspettare cinque minuti prima di rispondere al mio “scusi, posso chiederele una informazione?”. Protetta dal suo gabbiotto mi ha messo all’angolo con un “aspetti” sguainato senza guardarmi in faccia e ha cercato di uscire da una lunghissima frase piena di subordinate lasciate miseramente socchiuse. Poi le è squillato il cellulare e con la stessa lentezza ha dato indicazioni ai familiari per la spesa. Alla fine le ho chiesto “Mi sa indicare chi è la professoressa Nomeprof?”
Dopo una serie di vaghissimi “Oggi non c’è” e “Guardi che ho un appuntamento” e “Ah, allora forse sì” si è degnata di alzare lo sguardo e me l’ha indicata in fondo alla sala.

Ho cercato di non irritarmi con questa indolenza e ho atteso il mio turno con calma. C’erano una dozzina di mamme e un paio di papà che come me, aspettavano. Più o meno avevano tutte la mia età, più di quaranta, meno di cento. Ma la cosa che proprio mi sembrava stonata è che si comportavano come vecchie amiche (anche se si stavano presentando, vedendosi per la prima volta) e tra di loro si chiamavano “ragazze”.

“Ragazze a chi tocca dopo?”
“Ragazze chi di voi ha un appuntamento per mercoledi prossimo?”
“Ragazze che tempo: è proprio arrivato l’autunno!”

Io sono di certo un brontolone (ok, la parola che pensavate voi non è brontolone, ma dovendo sceglierla io scelgo brontolone!) ma a un certo punto bisogna fare due conti. Quando si smette di essere ragazze? A venticinque anni, di ritorno da una vacanza a Ibiza a fine agosto, quando si decide che è ora di comportarsi da grandi? Quando si ha un figlio? Quando si ha un mutuo? Quando si inizia a mettere le candeline con le cifre per evitare che la cera sia più del pan di spagna?

Io quando corro mi paragono a quelli della mia età, non a quelli di venti anni più giovani. E non lo trovo disonorevole, è solo senso della realtà. La cosa che tutti abbiamo perso di vista è che c’è una grande dignità nell’invecchiare. Io ho iniziato a farlo e spero di continuare a lungo (sempre che non mi legga nessuna bidella e nessuna ragazza).

Gli scarafaggi e la violenza sulle donne

violenzasulledonneOggi 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne. Io in questo blog di solito racconto quello che mi viene in mente. Storie che ho vissuto. Storie che ho immaginato di vivere. Sensazioni attorno alle quali costruisco una impalcatura di parole. O magari sciocchezze che ho voglia di raccontare a un amico.
Ma questa volta non ho una esperienza da raccontare. Non una esperienza diretta. Non so bene quale Cielo ringraziare, ma in casa mia non ho mai visto niente di simile. Certo: i litigi che ci sono in tutte le coppie. Ma la violenza è stato sempre un tabù. E così deve essere.
Forse, pensandoci bene, devo fare l’eccezione per un lontano parente che ogni tanto veniva alle mani con sua moglie. Qualche volta, si dice, facendole un male evidente. La differenza di forza fisica lo portava a farle male. Anche se ormai è morto, non ho nessuna remora a dire che lui è stato uno stronzo. Non c’è assoluzione, non c’è perdono per chi rende il mondo uno schifo. Per chi ci riporta indietro di secoli. E quando mi ricordo di lui, di chi è stao, di quello che ci siamo detti non posso non pensare al fatto che fosse uno che picchiava sua moglie. Non importa se una volta ogni venti anni o una volta ogni venti giorni. Era uno che picchiava sua moglie.
Prima di scrivere questo pezzo, mi hanno sconsigliato di farlo. Con delle ragioni molto fondate. La violenza sulle donne è un tema insidioso. Appena esci dal tracciato di quello che si dice sempre, rischi di sollevare un polverone.
Ma appena dici quello che dicono tutti non fai altro che aggiungere discorsi che si replicano banalmente all’infinito. Senza cambiare mai niente.
Invece no.
Ha senso parlarne. Non tanto parlare oggi per onorare una ricorrenza artificiale. Parlarne da oggi.
La violenza nasce spesso in casa. Non è un episodio. E’ cultura di sopraffazione. E’ tradizione fatta di omertà domestica e di silenzi. Dobbiamo parlarne. Dobbiamo avere il coraggio di dire basta.
Gli scarafaggi stanno al sicuro nascosti sotto i sassi. Ma se alzi la pietra scappano. Cercano un’altro posto dove nascondersi, si sentono nudi. Ma se troviamo il modo di scoperchiare tutti i sassi, tutti assieme, non hanno più posto dove nascondersi.
Lo facciamo?

L’illusione di capire le donne

confrontoCerto, lei è brillante. Ha qualcosa di magnetico. Qualcosa di nascosto così bene che neanche io capisco dov’è il trucco.
Ma io mica mi faccio incantare, sai?
Io ne ho visti tanti di prestigiatori. E anche se non saprei rifarlo, intuisco sempre dove è nascosto il coniglio, da dove esce chi sparisce, da che parte guardare quando prende la bacchetta magica.
Ma con lei no, non ci riesco.

Lei racconta cosa raccontare alle donne, quali frasi scegliere, quali evitare.
La leggo. La rileggo, cercando il trucco ma niente. Niente. Ma lo strano è che leggendo finisco anche io per diventare l’insetto goloso che poggia le zampette su quell’acqua e zucchero. E ci resta attaccato. E ancora non pensa a quando vorrà spiccare il salto, andarsene. Adesso si bea di quell’acqua e zucchero.

Insomma, passata la carovana chiassosa del suo post, con tutto il codazzo di fan adoranti, volevo dire la mia sulle frasi giuste per parlare alle donne. Non so perché, non so per chi. Non certo per dimostrarmi capace.
Solo per provare, senza farmi troppo vedere,  quei giochi di prestigio fatti di persone e parole.

Io penso che quello che fa la gradevolezza di una persona, di una donna soprattutto, sia la bellezza.
Ma attenti: non solo la bellezza reale di una donna. Anche quella percepita dalla donna stessa.

La donna bella che si sente bella si pone su un piedistallo. La conquisti paragonandola alle altre. Non le interessa tanto essere considerata, le interessa la classifica avulsa. I risultati degli scontri diretti. Non usare mai frasi relative, come “sei tra le più belle donne che abbia mai visto”. Così la fai sentire in zona UEFA ma non matematicamente la vincitrice. Usa frasi anche meschine ma che non mettano in discussione la leadership. Se più bella di un quadro di Van Gogh. Ma se è bionda va bene anche il paragone con una pennellata di Van Basten, tanto non se ne accorge.

La donna bella che si sente brutta è la migliore. Un semplice “Sei bella” è efficacissimo, ma solo se fa breccia. Se non si infrange contro quella ragnatela di sospetto che la insicurezza ha tessuto negli anni. Questa è la donna ideale perché combina la volontà di essere accettata (che ne fa persona gradevole e disponibile) con la gradevolezza estetica (che ne fa gnocca non chalant). Unico rischio è l’effetto contagio. Se ci facciamo convincere da lei che è brutta, ci sembrerà brutta. E la tradiremo con le shampiste tinte, ma tinte bene: senza ricrescita.

Se sei brutta e ti senti bella hai dei problemi seri. La tua supponenza ti farà negare l’ipotesi che qualcosa dell’aspetto proprio non va. Ma non ammettendolo seguirai le mode più ridicole e audaci. Lembi di pelle scoperti contro ogni pudore, leggins che fasciano sfasciando l’appetito dei passanti. Nei giorni di festa escono sfidando le normative edilizie comunitarie, rischiando ad ogni angolo di essere derubricate a ecomostro.

Per le donne brutte che si sentono brutte va aperto un ulteriore sottocaso. C’è la piccola fiammiferaia remissiva (tanto sono brutta e non mi si piglia nessuno). Con questa donna bisogna usare piccole frasi gentili. Come “hai un naso interessante” o “hai un profilo coraggioso”. Evitare il naso importante e profilo aquilino, visto che la donna brutta legge molto e tende ad annoiarsi, dopo la ottantesima volta che sente certe locuzioni. “Hai capelli rari e preziosi”. Oppure “Non ho mai visto nessuna col tuo aspetto”. Senza essere troppo precisi. Senza dire “Non ho mai visto nessun mammifero o rettile col tuo aspetto”.

L’ultima categoria è la testa di cactus. E’ brutta, si sente brutta, ma rifiuta qualsiasi confronto con la realtà. Sfoga il suo senso di inadeguatezza con frasi acide e taglienti. Questa donna astiosa non va conquistata, va semplicemente avvicinata per estrarne siero antiofidico a km zero. Se volete conquistarla fatela sentire normale. Anche con una frase che nessuno le ha mai detto come “Scusi, per piazza Cavour?”

Non di mimosa

Stamattina alle sei piscina autobus di lineacorrevo e ho visto due giovani donne in tuta da ginnastica ultra-tecnica iper-firmata che si sono fermate a depredare una pianta di mimosa. Ah, già: è l’8 marzo. Ho sempre trovato triste questo contentino. E ho pensato a scrivere qualcosa per il mio blog. Su qualche donna e qualche impresa che valesse la pena ricordare. Trasvolate, traversate, conquiste. Poi mi è venuta in mente un’altra impresa che sugli almanacchi non è riportata.

Mi è venuto in mente qualche immagine, fine anni ’70, quando mia mamma ha cercato di portarmi in piscina. Alla piscina GEAS di Sesto. Ricordo solo alcuni particolari, ma sono più che sufficienti per delineare l’eroismo di quel gesto materno.
Ricordo l’odore forte di cloro, il fastidio dell’umidità e il prurito dell’acqua nel naso. Ricordo quanto rompevo le scatole coi miei “Non ci voglio più andare”. Io che da buon primogenito remissivo, di capricci non ne ho mai fatti troppi. Ma la memoria spesso è indulgente sui noi stessi. Ricordo la paura dell’acqua. Un blocco che neanche la tavoletta gonfiabile (nera da un lato e gialla dall’altro) riuscivano a sciogliere.
Il mio rapporto con l’acqua è sempre stato problematico. Un elemento che mi piace, ma verso cui ho una incredibile rigidità. Mi avevano iscritto per un problema di scapole alate. Che era una cosa che andava di moda allora. Il pediatra aveva consigliato di farmi fare nuoto. Anche se a me questa cosa di avere le ali dietro la schiena non è che mi dispiacesse poi tanto.
Dovevo essere in terza o quarta elementare. Mia mamma portava me, dopo essere passata a prendere mia sorella all’asilo. Naturalmente portando anche mio fratello (di mezzo) per mano. Non so con che mano tenesse la borsa della piscina. Ma so che questa comitiva di ribelli si spostava in autobus. Con “la [linea] C”, che adesso ha un altro nome, ma allora era solo “la C”. Ché quando dicevi “devo prendere la C” tutti ti capivano. Eh già, perché allora mica era tanto normale avere più di un’automobile per famiglia.
Mi ricordo l’autobus arancione e il buio invernale fuori. E i miei capricci. E uscire con la testa ancora bagnata, perché non ho mai sopportato i fon.
Penso che dopo tre mesi si sia rassegnata ai miei capricci e, con inconfessabile sollievo, ha deciso di non rinnovare altri tre mesi di supplizio alla piscina GEAS.

Penso alla fatica di quei tempi. Organizzare, fare tutto. Orari, responsabilità e fatica fisica.
E penso che per colpa del pudore che lei mi ha insegnato, io paradossalmente non ho mai imparato a dirle che le voglio bene. A dirle quanto lo apprezzi. Adesso che sono io che porto in piscina i bambini. La storia della piscina è un episodio inutile, passeggero, che non dice niente del resto. Ma che mi riporta alla mente tutto l’amore che ho ricevuto. Vorrei saperlo dire, anche tardi, anche adesso.

Con la testa faccio un salto. Stasera a Francesca non porterò mimose. Ma l’abbraccerò, pensando a come svolge (anche lei) il ruolo di mamma e di moglie con passione ed eroismo. Sono proprio fortunato, con le donne. Sono così fortunato che mi sembra la mia, di festa. Ma questo non glielo dico, va’.