amici

Improbabile come amarsi

  
Vivevano nella stessa città e i loro nomi, tutto sommato, non importano. Quando era stato il momento di decidere per le loro vite un po’ per infondate convinzioni e un po’ per caso, si erano trovati a fare scelte opposte.

Ma non dissimili o poco vicine. Proprio opposte. Opposte.

Lui amava alzarsi la mattina presto anche se non aveva niente di urgente da fare. Gli sembrava di perdere il meglio della giornata, restando a letto quando è fresco e quando, d’inverno, la notte ci mette di più a sciogliersi in giorni poco luminosi.

Lei diceva che le coperte erano il suo sport estremo. E stava attenta a non dire lenzuola, per non essere fraintesa. Perché non disdegnava la compagnia, ma stare a letto le piaceva come un bicchiere di Porto davanti al camino. Una gioia da assaporare. Meglio da soli, se nessuno riesce a leggerla con gli stessi occhi.

Lui la sera leggeva poco. Gli occhi gli si chiudevano e andava a letto presto. Indefinitamente soddisfatto di quel torpore senza troppi esami di coscenza. Ci si calava dentro come una rincorsa verso la mattina dopo.

Lei la sera aveva sempre mille cose da fare. Spettacoli, concerti, vedere uno. Ma anche quando aveva un compagno quel “vedere uno” era restato un gesto indeterminativo e non si era mai legata a nessun uomo degno di un articolo determinativo. Andava sempre a letto tardi, a volte per finire un libro, anche quando non lo sopportava più.

Un mezzogiorno si incontrarono a casa di amici comuni, nel campo neutro dei loro orari. Parlarono con garbo e si guardarono piano, come se ci fosse una discrepanza. Istintivamente si riconoscevano. Razionalmente erano due perfetti estranei. Non una circostanza, un luogo, un appuntamento, un episodio.

Ma il loro istinto suggeriva ad ognuno di loro che quella totale distanza era come l’amore. Una improbabile E magica combinazione di tutto-perfettamente-indovinato. Come tirare la moneta e puntare su croce. E vedere uscire per dieci volte di fila croce, in uno stupore che sale di un respiro ogni lancio. Solo che nel loro caso era come fare dieci volte testa, avendo puntato su croce. Come amarsi totalmente per una serie di occasioni perse, ma perse con perfezione matematica.

Distolsero quello sguardo dopo un numero infinito di istanti e non ci pensarono più. Quasi più.
| Il disegno è un regalo di @ninnosa | https://Instagram.com/ninnosa/ |

Signori si chiude

friendfeedEravamo a Torino. Era la prima volta che andavo al salone del libro. Ci andavo per conoscere dal vivo gli scemi di Spinoza.it. Erano i primi anni, eravamo pochini, passavo tanto tempo a postare battute nel forum.
A cena ho conosciuto gente che poi è diventata amica. Gente che poi ho scoperto essere anche bravissima a scrivere. Molto più brava di me adesso, figurati allora che non scrivevo neanche!
Facile perlare così, vero? Facile restare nel vago! No, no, aspetta: io i nomi li faccio. Potrei dire che ho conosciuto Van e anche Mix (e se cliccate sul nome vi teletrasporto nei loro blog di parole messe assieme bene bene).

Ricordo che quella sera parlavano di friendfeed. E io (che non l’avevo mai sentito) ho chiesto cosa fosse. “Mah, un social network di fighettini”, ha sentenziato non ricordo chi.
Detta così non era molto invitante. Ma poi qualche settimana dopo mi è tornata questa curiosità e ci sono entrato.
Dentro non ci ho vissuto molto, ma ci ho trovato gente a volte interessante.
Certo: avrei dovuto partecipare agli odii e ai flame per essere un cittadino a tutti gli effetti. Ma anche così, un po’ in punta di piedi, mi sono divertito. Abbiamo scherzato su tutto, fatto battute, parlato di eutanasia, di vacanze, di cibo, di cacca (non per forza in questo ordine)
Ho conosciuto persone che poi ho visto dal vivo (nel mondo che dicono reale). Ho scambiato pensieri e sogni e anche qualche vaffa.

Adesso friendfeed chiude e c’è un’aria da fine del mondo. Che dopo un po’ siamo tutti ad aspettarla e non arriva mai.
E ci si tolgono gli abbracci e i sassolini residui.
E poi si aspetta che chiuda con un sorriso strano.  Stiamo aspettando tutti che passi il rullo compressore e che schiacci tutti questi ricordi e pensieri e immagini e parole. Hanno detto che oggi chiude. Siamo qui a salutarci e non chiude mai.
E non chiude mai…

La moneta da cinque zecchini

zecchini

 

“Non serve mica avere tanti zecchini per essere gentiluomini”. Questo ripeteva spesso, quando era in vita, Messer Baldonazzo, padre di Bernardo de’ Baldonazzi. Anche nella famiglia di Sismondo dei Pancaldi veniva espresso, con altre parole ma con sguardi simili, lo stesso concetto. I giovinotti Bernardo e Sismondo crebbero entrambi lontani dal lusso, ma grazie al cielo anche lontani dalla fame più nera e vicini a insegnamenti pregni di buon senso.
Erano quasi adulti quando si conobbero e cominciarono a frequentarsi e a incrociare i loro affari. Una indefinibile affinità li portò a sentirsi simili e a fidarsi l’uno dell’altro. Ancora a bottega dai rispettivi padri, andavano come mercanti nelle piazze dei borghi vicini.

Quel sabato di fiera, a Sismondo capitò un buon affare. Si trattava di comperare uno stallone che valeva certamente molto più del prezzo che gli altri erano disposti a pagare. Un ottimo ritorno con pochi rischi, se solo si avessero avuti nella saccoccia tutti gli zecchini richiesti. Ma non era il giorno giusto e Sismondo aveva impegnato in altre adoperazioni tutte le monete a sua disposizione. Vedendolo in queste tribolazioni Bernardo si offrì di aiutarlo. “Mi fido della tua parola. Ti posso dare oggi la moneta da 5 zecchini che ti manca per il tuo affare. Me la renderai entro la Pentecoste”.
Sismondo si illuminò due volte: per vedere di nuovo tornare possibile il buon affare che pensava ormai sfuggito. E per il gesto di quel coetaneo che non aveva mai avuto l’occasione di chiamare amico.

Va però detto che la moneta da cinque zecchini era d’argento, mentre era d’oro quella da dieci. Ma quell’estate una improvvisa guerra in Dalmazia portò a una chiusura quasi totale dell’estrazione e del commercio dell’argento. Di lì a poco anche il re si vide costretto a mettere fuori corso la moneta da cinque zecchini.
Sismondo, che era uomo di principio, decise di restituire lo stesso il debito. Ma non avendo più nessuna moneta da cinque zecchini tra le mani, non potè fare altro che restituire la moneta da dieci zecchini.

Questo portò un leggero smarrimento in Bernardo che da creditore, passò di colpo ad essere debitore. Fece passare qualche giorno, in cui invero dormì poco e male, e decise di restituire a sua volta la somma di dieci zecchini.
Non era una rivalsa, non una vendetta. Non era neanche la volontà di puntualizzare. Era un limpido senso di gratitudine accompagnato dalla fiducia nel proprio interlocutore. Era una amicizia discreta che cresceva in dare e in avere. Che cresceva rinunciando intrinsecamente all’idea di saldo e di pareggio.
Passavano gli anni e questo avere e dare era diventata una consuetudine affettuosa. Ormai nessuno dei due aveva realmente bisogno di una moneta da dieci zecchini. Tantomeno da quella ormai introvabile da cinque.
Dopo molti decenni finalmente il mercato dell’argento riprese una certa vitalità e il nuovo sovrano decise di riprendere l’uso della moneta d’argento da cinque zecchini.
Ma nessuno dei due uomini aveva ormai interesse a estinguere l’antico debito. E continuarono, fino alla fine, a credere in un’amicizia fatta di fiducia e di disponibilità a dare ogni volta un po’ di più di quello che si riceve.

Sulla balaustra

invalides

“Ma co…?  Ma perché diavolo… Cosa ci fate lì? Su quella balaustra? Scendete di lì, non fate pazzie…”

Ma Michel aveva scavalcato la ringhiera di marmo e si godeva la gloria incommensurabile di quei momenti. Faceva i conti col vento freddo di quel tardo pomeriggio. Un vento sincero che gli sbatteva dritto in faccia e lo faceva lacrimare. Il bavero della giacca era alzato, strano istinto per un aspirante suicida, quello di evitare il raffreddore.

“Mi hanno riferito che eravate qui e mi sono precipitato, amico mio. Vi prego, non fate pazzie… Scendete di lì!”

Michel sentiva appena la voce familiare del vecchio amico, l’unico forse che ne conosceva a fondo la storia e (forse) i tormenti. Guardava in giù senza vertigini. Solo un leggero fastidio per il piano mobile dell’acqua che scorreva inospitale qualche metro sotto.

“Non sarà per quella donna? Scendete, parliamone. Solo io e voi, amico mio. Solo io e voi. Ma vi prego, non fate pazzie”

Michel si chiedeva incuriosito perché morire senza volontà, senza forze, senza messaggi, senza gioventù era considerato cosa degna. Mentre morire giovane, forte, con lucidità fosse così disdicevole.

“Non siate sciocco, non atteggiatevi a poeta incompreso. Voi siete un artista, un artista vero. Non scimmiottate le ballerine di fila, che fanno tragedie per un nonnulla. Quella donna poi lo sapevate dall’inizio che non poteva essere cosa per voi. Ha marito, santo cielo! Non importa quanto amore e quanta pelle vi ha fatto toccare. Lo sapevate dall’inizio che non era cosa per voi, che potevate avere lei ma non i suoi progetti”

Michel si sentiva punto da quelle riflessioni, come da quel vento. Ma sentiva di non avere più nessuna necessità di difendere una dignità di facciata. Le parole dell’amico gli facevano allo stesso tempo bene e male. Era toccato dai loro spigoli vivi,  ma era genuinamente grato di tutta quella sincerità.

“E poi, consentitemi, che senso ha un gesto di questo tipo dal Pont des Invalides? Il Pont des invalides, capite? Guardatevi attorno, non ha niente di memorabile questo ponte. Un simile epico errore andrebbe commesso dal Pont Neuf, per dire. O almeno dal Pont des Arts! Che non sarà un granché ma è senz’altro più evocativo di questo ponte per mezze maniche distratti! La vedete la banalità di questo marmo bianco e regolare?”

Michel era divertito dalla intelligenza del discorso. Questionare di ponti persino di fronte alla prospettiva di mettere fine anzitempo alla propria vita. Sorrise, ma nessuno del gruppo di curiosi fermatosi a rispettosa distanza se ne avvide.

“E poi, non vi ho detto, mio zio Pascal mi ha mandato il suo foie gras dall’Aquitania. Ricordate il foie gras di mio zio Pascal, vero? Accompagnandolo a un Château Latour del 1909 farebbe risvegliare i morti! Scendete di lì, vecchio mio, venite con me”

Michel era assolutamente divertito. Fermamente sicuro del suo amore e nella sua disperazione. Sicuro della sincerità del suo gesto. Sicuro della supremazia dello Château Latour del 1909. Si decise finalmente. Indossò il suo migliore sorriso e fece un piccolo balzo dalla balaustra.

Deluderti

deludertiSerena si prepara per uscire. Dalla discussione di ieri sera le è restata quella parola in bocca. Non riesce a mandarla giù, non riesce a scioglierla con la saliva. Delusione, è quella parola. Serena non è delusa. Solo riflette su quanto l’esigenza di non deludere sia stata decisiva per la sua vita.
Pensa che le aspettative su di lei sono sempre state una fregatura. Non importa che tutto quel peso di aspettative esistesse davvero oppure fosse presente solo nella sua testa.
Serena ha sentito di dover essere brava a scuola. Di dover essere una brava ragazza. Di dover fare le cose giuste.
Intanto che struttura questi pensieri in forma di parole le scappa un sorriso sarcastico quando assembla “le cose giuste”. Va avanti a truccarsi, leggera coma una brava ragazza deve fare.
Pensa a quanto ha sentito il dovere di valorizzarsi con vestiti carini, ma non troppo appariscenti “Che sei già alta e poi se no spicchi troppo”. L’esigenza di essere sempre allegra e simpatica. Per tenere alto il morale delle troppe truppe.
E allora prende il telefono e scrive un messaggio al vecchio amico perso di vista per anni e che ha reincontrato pochi giorni fa.
“E allora, in questo bel reincontro, sarò felice di deluderti. buona giornata”
Serena ha fatto pace con la sua perfezione e può sputare quella parola che teneva in bocca da ieri.
Esce di casa incamminandosi verso il posteggio. E da adesso ogni passo è un pezzo di strada guadagnato.

Stabile e sicuro

trebicchieriPiove e si ritrovano in un bar. Silvano arriva in motorino, lo parcheggia nelle righe, lo raddrizza, copre il sellino con un sacchetto e mette la catena. Lorenzo arriva subito dopo, con l’autobus, puntuale, anche l’autobus. Monica arriva poco dopo, ha preso la macchina, suo marito era in ritardo, ma abita vicino.

Entrano nel locale dove con chiarezza meccanica vengono spiegate le regole e i prezzi. Quei tre non sembrano gente da aperitivo, ma dopo essersi letti tanto è una buona occasione per vedersi.

Parlano parlano parlano. Intanto il locale si riempie di gente difficile da definire. Il discorso rimbalza piacevolmente di qua e di là. Poi si finisce a parlare di lavoro.

Lorenzo dice che forse si sposterà in Spagna. Lui e la famiglia. Che ormai qui è dura e i contratti nuovi sono pochi irraggiungibili. E magari l’estate prossima ci provano. Per vedere come sarebbe. Per vedere com’è.

Monica ha un contratto a tempo indeterminato, ma suo marito è meno stabile. Lei vorrebbe cambiare, andare all’estero, cercare nuove sfide. Ma si sente il perno del compasso. Dice proprio così. Si vede che sa trovare le parole giuste, come quando scrive. Le pesa questo essere l’elemento stabile e non potersi proiettare verso una crescita.

Silvano ha qualche anno di più. Un lavoro di quelli che venivano descritti con aggettivi democristiani. Solido, stabile, sicuro. Come se ci fosse sicurezza. Ma non lo dice, non sarebbe delicato nei confronti degli amici che devono fare i conti con altro ordine di problemi. Nella mente di Silvano si formano improvvisamente delle bolle di pensieri. Pensa che è fortunato ad avere questa stabilità. Pensa che questa stabilità è la sua maledizione, quello che lo tiene fermo. Pensa che con i figli non sarebbe serio fare scelte azzardate. Pensa che non ci sono occasioni, ma se anche ci fossero lui lascerebbe passare tutti i treni. Pensa che è un idiota a pensarla così. Pensa che è una serata davvero piacevole e cerca di godersi la compagnia dei suoi amici.

Fuori ha smesso di piovere.

Mi ha preso sotto braccio

tibidaboLei era di una bellezza semplice e perfettamente convincente. Io no. Avevo uno zaino Invicta come il suo. Lei portava jeans con il risvolto, come i miei. Ma chissà com’era, lei ci si sentiva proprio a suo agio. E  io no.
Lei era nell’altra quarta, gita di classe a Barcellona. In pullman. Una lunghezza e una scomodità che forse, le caravelle di Colombo, no dai: lasciamo perdere.
Io l’avevo vista da lontano e apprezzavo la sua bellezza pulita. Molti le preferivano le due amiche, quelle appariscenti e scosciate. Quelle coi capelli color “voglio avere venti anni”. E a diciassette è un bel salto fino a venti.
Eravamo al parco divertimenti Tibidabo, fuori dall’autoscontro. Tutti e due tra quelli che aspettano che l’infantilismo dei compagni di classe esaurisca i gettoni omaggio.
Ma a un certo punto, quasi senza pensarci, io mi sono messo di fianco e le ho parlato di Katia, un’amica comune. Lei si è girata, mi ha preso sotto braccio e mi ha detto “Parliamo”.
Io in quel momento ho visto il mio tradizionale impaccio abbandonarmi. La mia ritrosia prudente, la mia vergogna: tutto. Mi sono lasciato prendere sotto braccio.
Mi sentivo qualcuno, mi sentivo uno che non ha paura dei suoi diciassette anni.

Abbiamo parlato per ore, poi la sera ancora, nel tragitto tra albergo e locale di flamenco come da copione.
Ma questo non conta. Ma no, cosa dici? Non abbiamo limonato! Abbiamo parlato, capisci?
D’accordo, hai ragione tu. Questa storia non è niente di speciale, a guardarla dal di fuori.
Ma mi è venuta in mente quella sensazione e volevo parlartene. Mi sa che non ci sono riuscito, vero?
Conta che mi ha preso sotto braccio e io c’ero.

Ma lui trema

alluminioPrima una breve telefonata. “Ciao. Quanti anni sono passati? Non possono essere così tanti. So che ti sei trasferito lì. Ci devo passare per lavoro. Dai che facciamo quattro chiacchiere, magari andiamo a cena assieme”.
Poi quando un appuntamento viene incastrato a martellate in due agende, finisce per prendere una forma strana.
Alla fine è diventato un caffè, in uno dei tanti bar che nella stagione giusta accolgono i turisti che si allontanano dalla stazione cominciando a cercare l’odore del sale.
Ma il nostro mare non ha acqua salata, ma è pieno di ricordi. Di anni passati a scuola insieme e di storie vecchie che, se fossimo così stupidi da raccontarle a qualcuno che non c’era, sembrerebbero insignificanti.
Ci squadriamo reciprocamente, senza badare troppo se si nota. Cerchiamo di valutare nell’altro come il tempo ha segnato il suo passaggio. Chili in più, capelli in meno, cose così.
Il tavolino di alluminio è stabile e pulito. Ci accomodiamo e lo noto quasi subito.
Lui trema. Si tiene le mani e non capisco se sia per nasconderlo o per cercare di controllarsi.
Ma lui trema.
Io fingo di non vedere, ma lui trema.
No, non può essere. Non tu, amico mio. Mentre parliamo di niente cerco di farmi strada tra quelle malattie coi nomi degli scienziati.
Parkinson, Alzheimer, chi era? Qual era quello più grave?
Vorrei scappare, vigliacco che sono. Vorrei avere le parole giuste.
Ma che cazzo gli dico a un vecchio amico che ha la mia età e che trema?
Siamo irrimediabilmente soli. Io con le mie parole che non ascolto e lui con il suo tremore. Comincio a coniugare la sua sorte alla prima persona singolare. E se fossi io? E se fosse toccato a me? E se toccasse a me?
Poi cerco di scappare in un comodo “Ma no forse è un’impressione, cosa ne so?”. Ma questo non convince neanche me.
Il nostro incontro dura poco, ma ben di più di quanto ci sia rimasto da dirci.
Riprendo il treno controllando il posto sulla prenotazione.
Mi metto le cuffie cercando una playlist che mi faccia dormire. Dormire e non pensare.
Ma lui trema.

Ti lascio tutto sul tavolo

spesa febbreScusa se entro in casa tua senza avvisare. So che la chiave è sempre lì, sotto lo zerbino. Quante volte ho detto che non dovresti, che così potrebbe entrare chiunque? Ma poi mi ripeto e lascio perdere.
Ti lascio due righe per spiegarti. Non ti sveglio, con quella febbre è meglio se dormi un po’.
Ho fatto la spesa per me, qui vicino, e ho pensato alla tua febbre e a portarti qualcosa. Mi sembrava un gesto che si intona bene alla nostra amicizia.
Ti lascio la sporta sul tavolo, poi vedi tu.
Ti ho messo un thermos con un po’ di brodino. No, non ridere: il brodino non è una cosa da vecchi. Prima o poi spero che tu capisca la bellezza di un brodino, per gli occhi e per il naso, prima che per il palato.
Ho preso dei mandarini e mele. Arance da spremuta no, erano brutte.
Ti ho preso il pane e la Settimana Enigmistica. Niente notizie, niente attualità.
Un mezzo litro di latte intero.
E otto pacchetti di fazzoletti di carta.
Ah la gamba di sedano è per me. Adoro quando sbuca dalla borsa della spesa, non farci caso.
Il foglio è quasi finito, quando ti svegli dimmi come stai.
Simone

Come difendersi dai regali. Guida sintetica.

regaliSi avvicinano i tempi dei regali e comincio a sbuffare pensando a come dovrò aderire a questo rito. La cosa strana è che anche quando sbuffo a mente, poi dal di fuori si vede, non so se è lo sguardo o il vapore che esce dai pori. Di fronte ai regali non possiamo nasconderci. Abbiamo un doppio ruolo: attivo e passivo. I regali dobbiamo farli e i regali dobbiamo riceverli. Dobbiamo, sì. E non valgono i patti di non belligeranza. Non vengono mai rispettati. Qualche anno fa ne avevo fatto uno. “Continiuamo a ripeterci che siamo circondati da un consumismo acritico. Perché non facciamo un viaggio invece di farci degli stupidi regali per natale?” “Sì, sono d’accordo. Volevo proportelo io”. Bellissimo, indovinato, perfetto. Salvo poi sentirsi dire “Ma io in fondo speravo che almeno qualcosina, un pensierino… un simbolo…”. E di fronte a queste cariche di tritolo innescate non c’è nessun “Ma come!” nessuna logica, nessuna ricostruzine dei fatti che possa funzionare.

Rifletto però sui regali peggiori che ho ricevuto. Riflettendo sulle circostanze in cui sono stati fatti. Magari qualcuno un giorno potrà trarne un’ispirazione per evitare gli stessi errori. Ma questo eccesso di spirito salvifico è solo l’ennesimo regalo sgradito.
Ci sono i soprammobili carini della categoria non sapevo cosa scegliere, ma volevo farti un pensierino. La carineria e l’attrattività del coso ha una persistenza media di un minuto, un minuto e mezzo nei casi migliori. Ma chi li ha ideati e commercializzati sa che questo minimo lasso di tempo è sufficiente al compratore in ritardo coi regali inutili per metterli nel censtino e andare verso la cassa. Non importa se chi li riceve avrà voglia di buttarli già dal sessantunesimo secondo di convivenza (novantunesimo nei casi migliori).

I regali palesemente riciclati. Un mio amico mi ha regalato a un anno e mezzo dal suo matrimonio, un set per la fonduta “ma lo puoi usare anche per il cioccolato”. Certo se fossi Willy Wonka forse un paio di volte l’avrei usato e avrei considerato che quel mezzo metro cubo di ingombro era tutto sommato accettabile.

I regali che poi magari me lo presti. Funziona così: ti regalo un qualcosa che vorrei comprare per me, con la dichiarata speranza di poterne trarre un beneficio. In questo mia sorella è stata per anni in lotta per il titolo di campione regionale. Ma da quando io ho cambiato regione di residenza, ormai non ha più avversari degni. Regalava cd che le interessavano per poi poterseli duplicare. Una specie di parassitismo informale molto evoluto. Una cosa a cui gli etologi arriveranno fara due o tre decenni.

Poi ci sono i regali l’ho fatto con le mie mani. E’ una categoria multiforme. Di solito le materie prime sono lana dei colori sbagliati, cartoncino dei colori giusti, vinavil. Si buttano centinaia di ore-uomo nella realizzazione di maglioni che nascono già sformati che potrebbero andare bene al parigino Quasimodo. A patto di avere quel minimo di buona sorte ci permette di fare combaciare le gibbosità dell’indumento con quelle del campanaro di Notre Dame. La particolarità di questi regali è che poi vengono messi, esclusivamente nei giorni di festa, indipendentemente da ogni esigenza estetica e di termoregolazione. All’interno di questa categoria merita una menzione uno studio dell’Università di Stoccarda incentrata sulle inevitabilità della taglia sbagliata. Persino per le sciarpe.

Ci sono poi i regali della categoria lacinquantamila. Funziona con una elargizione di denaro contante, che va nominato con immotivati diminutivi e allungato con sguardo colpevole. La nonna che dice “Non sapevo cosa regalarti, ti do i soldini [diminutivo!] e ti compri quello che vuoi. Ti compri una cosa che è il pensierino che ti fa la nonna”. Nonna: non è un pensiero. E’ money transfer, è una specie di WesternUnion autarchico: che razza di pensiero se neanche ci hai pensato. Ok, i soldi sono soldi: ma perché me li dai di nascosto? Di chi hai paura? Puoi essere più precisa sulla provenienza di questo denaro?

I regali inaspettati di chi volevo comunque fare qualcosa. A parte che quel comunque andrebbe indagato a fondo. Comunque cosa? Ti sto sulle balle e volevi farmi comunque un regalo? Non ci tenevi ma ti sei sentita comunque in dovere di farlo? Ti hanno regalato una porcheria che comunque hai deciso di rifilarmi per liberartene?

Il primo pensiero di fronte alla maggior parte dei regali va al calendario. Scorriamo i mesi alla ricerca della data esatta della festa patronale, quella in cui chiedono se abbiamo preziosi oggetti da devolvere per la pesca di beneficenza. No, fermatevi! Questi oggetti non vanno riciclati. Così si rialimenta il racket delle porcherie in circolazione.
Dobbiamo avere il coraggio di smontarli, disassemblarli, dividerli per componente e (una volta mischiati i pezzi) smaltirli nei cassonetti di comuni distanti almeno cinque miglia l’uno dall’altro. Forse solo così avremo qualche speranza di averli eliminati per sempre.