Il colloquio per il primo lavoro l’ho fatto con una insostenibile leggerezza. Smontavo dall’ultimo turno di guardia, lungo ventiquattro ore. Con la divisa blu dell’Aeronautica Militare, anfibi rigorosamente ai piedi (sempre), e un servizio fatto di quattro ore in giro per la base militare e quattro ore di riposo.
Ripensandoci adesso mi sembra assurdo che non abbia scelto il servizio civile. Mi sembra assurdo di avere perso un anno a giocare ai soldatini imbracciando armi vere, invece che iniziare a costruire il mio futuro. Mi sembra assurdo ma è andata così e diventare pacifista, negli anni immediatamente successivi, è stata una maturazione che apprezzo ancora di più.
Nel blindatissimo corpo di guardia c’era una doccia, pensata perché i soldati si potessero lavare dopo una molto improbabile contaminazione nucleare. Io ci ho portato il docciaschiuma e ho cercato di togliermi la contaminazione da inutilità delle ventiquattro ore appena trascorse.
Il sottetenente, un mio coetaneo a cui davo del lei, ha finto di non vedermi uscire da lì, accennando solo col capo un segno di disapprovazione.
Dopo avere smontato mi sono messo giacca e cravatta e, armato di tuttocittà, ho preso un paio di autobus raggiungere il luogo del colloquio di gruppo.
Ci hanno spiegato cosa avremmo fatto, ci hanno propinato un test che ho passato con grande scioltezza, ci hanno inserito nelle caselle di un pomeriggio sovraffollato per la parte del colloquio.
In questo parte orale, c’erano tre direttori che avevano i gradi gerarchici degli ufficiali da cui mi stavo congedando. Solo che non erano (ancora) del mio esercito e questo mi dava una grandissima libertà. Una mia amica era stata scartata e mi aveva avvisato “Guarda Simone che questi cercano di stressarti, di metterti in crisi. Ti trattano male apposta per vedere come reagisci”
Io allora (conoscendo il trucchetto) aspettavo divertito che iniziassero. Dopo qualche domanda classica hanno iniziato: “Ma lei è alla prima esperienza. Il suo voto di laurea non è poi tanto speciale. Ma perché dovremmo prendere proprio lei?”
Io con artificiosa sfrontatezza “Perché se non mi prendete adesso non saprete mai cosa vi siete persi!”
Sì, lo ammetto. La frase è una frase idiota. Logicamente non sta in piedi, perché questo vale per chiunque sia scartato. Ma i tre inquisitori se la sono fatta andare bene, leggendoci un approccio volenteroso (sbagliando) e una buona prontezza (indovinando). Mi hanno assunto.
Ci siamo trovati qualche settimana dopo a partire per un corso base di un mese. Eravamo cinquanta ragazzi e ci insegnavano cosa succedesse in quella multinazionale molto complessa che ci aveva scelti come rampolli. Dovevamo imparare il mestiere del direct marketing quando lo status di quel lavoro non era ancora stato svilito da un uso indiscriminato e molesto del call center. Erano anche gli anni in cui si pensava che bastassero le strampalate teorie della programmazione neurolinguistica per fare un rappresentante partendo da una persona normale. Dovevamo imparare a convincere, per telefono, magari distinguendoci dai piazzisti di spazzole. Dovevamo anche fare gruppo.
Questa ultima parte ci veniva benino. La sera, nel deserto nebbioso di un terra a metà tra il Lario e Milano, spuntavano due chitarre che si avvicinavano al piano scordato suonato da un napoletano simpatico e un po’ jazz. C’erano chiacchiere, sogni e vanterie dei soliti. Eravamo tutti laureati, i trenta anni ci sembravano incautamente lontani e avevamo grandi sicurezze sul futuro.
Una sera siamo finiti in una birreria in stile old west. Un posto particolarmente triste dove servivano una birra pallida, indossando con apatia camicie a quadri e gilet da Pecos Bill della bassissima brianza. C’eravamo quasi solo noi in quella solitudine. Ma non ci mancava niente, visto che cercavamo solamente l’occasione per mettere il naso fuori dal centro di istruzione.
Era un gennaio freddo e penso che gran parte dell’umidità della zona fosse finita in quelle strade.
Siamo usciti ad un orario poco compatibile con la ripresa dei lavori la mattina dopo. Il tasso alcolemico era da “tanto non devo guidare io”. C’era una nebbia che quei lampioni alti e gialli del parcheggio appena asfaltato, riusciva a bucare appena.
Giriamo l’angolo e ci troviamo di fronte un dromedario.
Era un dromedario, ti dico! Fermo davanti a noi, con lo stesso sguardo perplesso e incredulo che dovevamo avere noi. Ma forse senza condividere il nostro primo pensiero “Forse stavolta ho davvero bevuto troppo”.
Un dromedario, nel parcheggio di una birreria di Qualcosate (i nomi dei paesi iniziano tutti male e finiscono tutti in -ate).
A qualcuno torna la parola e dice “Ma… è un cammello!”.
Subito ripreso “No, veramente è un dromedario”, come se la cosa fosse più accettabile. E come se il conteggio delle gobbe fosse così facile per gente che ci vedeva doppio.
Siamo tornati nelle macchine, stringendoci in cinque o sei, e siamo andati a dormire.
Il giorno dopo non ne abbiamo parlato. Tutti intimamente perplessi e dubbiosi del ricordo assurdo. Fino a quando qualcuno ha trovato su un giornale un trafiletto su un certo dromedario scappato da un certo circo che stazionava nel certo paese. E la sintassi della cronaca locale si dilungava rassicurando sulle condizioni di salute del camelide.
La conferma che tutto questo fosse successo davvero ci ha rasserenato, quando già i più volitivi si ripromettevano di diminuire, in futuro, il numero di medie chiare.
Dopo aver dato una rassicurante spiegazione razionale di quell’incontro, l’unica cosa illogica è restata quel locale finto werstern incastonato nella finta brianza comasca.
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