incomunicabilità

Monstera Deliciosa

Capisco che negli studi il ritardo accumulato dalle prime persone che entrano al cospetto del professionista si ripercuotano sugli appuntamenti seguenti, ma se appena entro mi si dice “Vada pure a prendersi un caffé, che qui siamo sull’oretta di ritardo” non partiamo proprio col piede giusto. Già fare le corse per essere puntualmente in anticipo è faticoso, sentire poi lo svilimento di ora in oretta è davvero insopportabile. Ma non voglio polemizzare, non oggi, non ancora. Ho bisogno di far vedere le mie pratiche e di chiudere tutto prima della maledetta scadenza. Non voglio ritornarci alla prima casella di quel calvario fatto di linea da prendere, responsabile fuori ufficio, responsabile che adesso glielo passo e data da trovare e cosa deve fare di preciso. No: sono qui adesso e devo fare tutto quello che serve per non tornarci. Aspettando anche un’ora. Un’oretta, persino. Forse questo pensiero ha qualche efficacia nell’incanalare il mio ottuso livore verso altri obbiettivi. Mi sto rasserenando.

Suona il campanello, il segretario muove la mano verso il citofono e apre senza guardare. Il muro attorno al pulsante è ingiallito: ci deve avere messo un bel po’ per rendere meccanico e preciso questo movimento del dito verso il pulsante.
Entra una ragazza. È vestita più per fronteggiare questo caldo, che gli sguardi che ha attorno. Ha una canotta grande, larga, larghissima. Una gonna incidentalmente corta e ai piedi porta la sintesi estrema di un paio di sandali. Solo due suole legate ai piedi da stringhe di cuoio e perline.
Mi guardo attorno. Ho poca batteria e non la voglio sprecare con un giochino scemo. Le pareti bianche sono state ritinteggiare da poco. Le sedie di plastica sono meno dozzinali di quanto potevo aspettarmi. Le piastrelle di cotto forte sono terribili. Un colore che avrà sicuramente dei pregi nascosti dal punto di vista della facilità di tenerlo pulito, perché come bellezza proprio siamo messi male. Alle pareti stampe che non suggeriscono nessuna emozione. Solo dei colori abbinati bene e niente di più.
La ragazza mi si siede di fronte e fruga nel borsone elegante per estrarre un iPad. Riceve una telefonata prima di riuscire a sbloccarlo.
“Sì, te lo stavo facendo proprio adesso il bonifico. Certo, lo so. Tu controlla domani mattina. Ma cosa ne so? Non so che valuta piglia, devi saperlo tu. Domani dall’ufficio ti mando la conferma.”
Ha un tono di voce fermo e non fastidioso. Non sembra uno di quelli che per fare una telefonata si mettono al centro del palcoscenico, a voce insensatamente alta. Come per affermare “io sono uno che fa le cose che contano: guardami”. Lei fa la telefonata in modo spontaneo, senza attriti.

Rifletto su questo e vedo, incidentalmente, i violenti tatuaggi che le spuntano su gambe e braccia. Li porta con una naturalezza tale che non li avevo neanche notati. Eppure sono forti, decisi, netti.
Ha sul braccio le linee di una faccia che sembra disegnata su un foglio di plastica dilatato dal calore. Un disegno davvero ispirato. Bello, esplicito e riassuntivo come la locandina di una serie tv su Netflix. Dice tutto, lo dice bene, in pochi tratti. Lei continua a spostare i polpastrelli sul suo tablet e io continuo a ingannare il tempo leggendo l’inchiostro che ha addosso senza farmi notare.
Dalla coscia destra spuntano una serie di linee spesse, ondulate e parallele. Potrebbe essere il fumo stilizzato di una tazza di tisana copiata da una infografica. Mi stupisce lo spessore di ogni singola spira di fumo. Un centimetro intervallato da un centimetro di spazio per poi ripetersi e ripetersi.
Su un fianco ha invece una pianta tropicale. Non si capisce bene da dove parta ma dalle finestre nei vestiti sembra che parta dalla gamba e arrivi fino alla spalla. Mi ricorda una pianta che aveva mia mamma in appartamento. Anche questa disegnata con grande maestria. Sembra una di quelle piante con le foglie grandi e lobate come le foglie di fico. Come si chiamava?!?

All’improvviso sbuffa. La vedo che cerca una connessione che non trova e non riesce a entrare nell’home banking.
Ho la cattiva idea di suggerire una soluzione tecnica. Non la capirò mai che il mondo è fatto di persone che non vogliono essere salvate, soprattutto da supereroi part-time.
“Non si connette? Ha provato a togliere il wi-fi?”
Non risponde, intenta com’è a cercare di cavarsela da sola.
Dopo venti secondi mi dice. “Grazie era proprio quello. Ma non dovrebbe. Quando sono a casa prende il wi-fi. Fuori va con la schedina…”
“Magari c’è qui attorno qualche rete wi-fi aperta che gli dà quel poco di connettività per fargli credere di essre dentro. E poi non va”
“Infatti. Adesso va” dice continuando a fare tutti i passaggi per portare a buon fine il bonifico che ha promesso troppo presto.
“Sei un tecnico?”
Mi viene da dare la solita risposta. Che no, non sono un tecnico, ma ho lavorato tanti anni coi tecnici e bla bla bla.
Questa idea di risposta precisa annoia persino me. E me la tengo. Invece rispondo “Quando qualcosa mi interessa, mi piace guardarci dentro”. Io pensavo agli ingranaggi. Lei probabilmente fraintende perché risponde “Monstera deliciosa”.
“Cosa?”
“Monstera deliciosa! La foglia che ho tatuata sul fianco è di una pianta tropicale.”
Mi viene in mente come la chiamava mia mamma e azzardo “Pensavo fosse un filodendro”.
“Sì, si chiama anche così. È una pianta che cerca di arrivare in alto alla volta della foresta. Ma alla luce diretta muore. E non sopporta neanche il ristagno d’acqua. Ha radici aeree, come per illudersi di poter volare. E i tagli sulle foglie la rendono forte. Non ha paura che il vento la butti giù”. Non capisco più se sta parlando del disegno, della pianta o direttamente di sé stessa.
Ricordo che i miei ne avevano una in casa. Ricordo un vaso di plastica bianco, rettangolare e dai bordi arrotondati. Non capisco come ci sia entrato un vaso così di design in un appartamento arredato con gusto molto classico. Continuo per la mia strada “Io non capisco i tatuaggi, ma quello sembra disegnato molto bene”
Lei sorride. Ma è perché il bonifico è andato a buon fine. “Si vede che non ti piace. Ma nella vita non puoi mangiare panna e cioccolato. Ci vogliono contrasti”
Sorrido io. Ma cosa vuole insegnarmi questa lavagnetta ambulante che avrà la metà dei miei anni? Ma la sua metafora confusa mi arriva diretta. “Io da piccolo sceglievo sempre fragola e limone. Poi ho cambiato, cercando gli abbinamenti migliori. Sto tornando ad apprezzare il contrasto del dolce e dell’acido”.
“Vedi?” dice convinta di esserne uscita vincitrice, di essere stata lei a convincermi. Come se la fragola e limone fosse una scusa.
Io continuo convinto a darle del lei, se solo la costruzione della frase me ne desse occasione. Alza gli occhi dall’iPad e vedo che ha un occhio verde pezzato di marrone. Mi ricorda la montagna. Una prato di montagna con una grossa boazza di mucca. Che poi chissà come si dice boazza in italiano, certamente non letame o stallatico. Boazza è di più: è la materia, ma anche la forma. È la natura che chiude il suo ciclo restituendo scarti vegetali ruminati facendoli regalmente cadere dall’altezza di circa un metro. È lo splaf che suggella un ritorno. Cioè: quello che mi ispira questa immagine è senz’altro lusinghiero; ma non saprei spiegarglielo. E sorrido in silenzio, perso nei miei pensieri di montagne verdi con screzi di marrone fluido.  Chissà se anche l’altro occhio, coperto dal ciuffo castano, è dello stesso colore. Mi sa che è un architetto. Non saprei dire perché. Forse per lo stile deciso, per la cura di quelle linee. Ma no: prima ha detto ufficio e non studio. Gli architetti dicono studio. Quasi quasi glielo chiedo, come se questo mi cambiasse qualcosa.

Esce la persona che era prima di me in fila. Tocca a me. Dove è finita tutta quella fretta che avevo un’oretta fa?
Faccio in tempo a vedere che fa fronte alla mia uscita di scena mettendosi degli auricolari costosi e seleziona Chemistry, degli Arcade Fire. Avrebbe preferito non interrompere questo dialogo improvvisato con me. Mi piace pensarla così.
Riordino le fotocopie e lancio un rassicurante “Eccomi, arrivo” per non perdere il posto.
Quando esco non c’è più. Mi fermo a prendere una cono da due euro. Fragola e limone. Senza panna, grazie.

Il cristallo

cristalloSono venuto a trovarti, ho parcheggiato fuori, vicino alla scritta “Parcheggio visitatori”. Mi fanno entrare dopo avermi fatto spiegato meccanicamente come funzionano le visite. Mi fanno anche firmare dei documenti troppo lunghi per leggerli adesso, ma tanto so che dicono che ho capito tutto e che sono d’accordo.
Firmo, metto nella cassetta tutti gli oggetti appuntiti, l’orologio, il cellulare. Sono spaventato da queste cautele, ma dove sei finita? Ma come diavolo ci sei finita?
Mi viene istintivo ribellarmi a tutto questo, ma cerco di stare calmo. Dopo tutto chi ho di fronte è solo un dipendente che sta rispettando il regolamento. Il maledetto protocollo.

Cammino veloce, dietro una donna vestita di bianco che mi porta in corridoi troppo luminosi, troppo disinfettati, troppo artificiali.
Mi dice che la visita durerà quindici minuti, che devo essere tranquillo, che devo cercare di infondere serenità, che se qualcosa non andasse per il verso giusto la visita finirebbe subito. Mi dice di non spaventarmi, che all’inizio tutti sembrano un po’ spaesati, ma stanno bene.
C’è una sedia di plastica, in questa mezza stanza, e un grande cristallo davanti. Che mi separa da te. Ti vedo lì dentro, spettinata, sembri assorta. Hai la faccia stanca, tanto stanca. Lo stesso sguardo di quando passavamo ore a letto a parlare invece di dormire, perché avevamo sempre un’altra cosa da raccontarci. Ma oggi non c’è quell’entusiasmo.
Mi rendo conto che non c’è un citofono, un interfono, un modo per fare arrivare la mia voce. Il cristallo è spesso, per la sicurezza di tutti, mi aveva ammonito l’addetto all’entrata, ripetendo a occhi bassi quella che per lui doveva essere una litania.
Mi avvicino al vetro, appoggio i palmi. Tu sei sveglia ma non ti avvicini, non mi guardi. Quanto narcotico hanno usato per renderti così, bestia in gabbia, senza volontà?
Vorrei che ti avvicinassi, che mettessi la mano all’altezza della mia, per avere l’illusione di toccarla.
Tengo il palmi sul vetro e senza accorgemene avvicino il viso, per vedere meglio dentro, per cercare di sentirti. Ma più mi avvicino più si appanna e la visione è subito confusa.
Mi sbraccio, mi agito, mimo le parole con la bocca che fa giri enormi. Ma tu guardi dall’altra parte. Come se ci fosse uno specchio che riflette dalla tua parte. Come se non potessi vedermi.

Ma so che non c’è nessuno specchio, non nella stanza dove sei tu. Come ti dico che ci sono, che sono qui? Come te lo posso dire?
Venga signore, il tempo è finito: dobbiamo uscire.

Favola di carta straccia

C’era una volta una storia, che girava nell’antica città di Fabriano. Nel senso che anche prima che Fabriano fosse Fabriano, la storia girava già.
La vocazione di questo borgo, prima ancora di essere borgo, è sempre stata quella della carta. Vocazione che è nata molto prima della industria cartiera. Prima ancora che i primi artigiani sperimentassero le tecniche di produzione della carta, gli abitanti di quella che sarebbe poi diventata Fabriano, erano già naturalmente portati verso la carta.
C’erano uomini tanto sottili da sembrare trasparenti. C’erano donne con capigliatura crespa. E non mancavano le giovincelle che sognavano di fare le veline. Ma non le soubrette, che non erano state ancora inventate. Proprio le veline: veline veline. C’era un tipo di Bristol, rigido e impettito. Un po’ grigio a dirla tutta.
C’era una signora, triste e pesta, vessata dal marito. Un tipaccio ruvido.
C’era il notaio, che girava con la moglie in filigrana.
C’era un ricco possidente con aria da banconota passata in troppe mani. C’era il becchino, giocatore d’azzardo di ramino. Passava le sere a barare, per rifarsi di una giornata a fare bare.
Insomma, era una bel posto, non ancora sulle carte, dove la carta non era uno strumento. Era più una filosofia di vita.

Il Geom. Righi aveva un aspetto da carta millimetrata. Preciso, impettito, pignolo. Non direi che il suo aspetto fosse perfetto. Definirei piuttosto che il suo stile come dimesso, professionale, rispettabile. Al limite un po’ triste. Ah, ma il Geom. Righi sapeva il fatto suo. Era autorevole, calmo e credibile. Sia quando nei suoi discorsi apparivano i destini del mondo, sia quando i destini in ballo erano quelli meno altisonanti del campionato provinciale di pallaqualcosa (no, il calcio non l’avevano ancora inventato).

Sofia Fanti era invece un’artista. Un’artista vera. Danzava da artista, parlava da artista (tre o quattro semitoni sopra), scriveva da artista, viveva da artista. In questo mondo di carte non era certo una banconota. Era piuttosto un foglio senza righe, di carta riciclata. Uno di quelli su cui scrivere, disegnare, appuntare, elencare la spesa. In una parola: tutto. Libero. Carta bianca.

Visto che Fabriano non era ancora Fabriano, era ancora più piccola di quella che sarebbe diventata Fabriano. Tutti si conoscevano. Almeno sulla carta.
Alla porta Nord della città c’era un antico arco di pietra: ricordo di quando l’antica Fabriano, che non era ancora Fabriano era ancora più antica. Ma a questo punto la gente perdeva il conto e non ci faceva più caso.
Sotto l’arco di pietra, il Geom. Righi, un venerdi pomeriggio fermò col piede un foglio che il vento si stava divertendo ad allontanare da Sofia Fanti.
Lei fu dolce e spontanea nel ringraziarlo.
Lui, come si conviene, fu garbato e prudente.
Finirono per cenare assieme. A la carte. Un incontro inaspettato (pensò lei). Una piacevolissima incombenza (pensò lui).
Si videro anche il giorno dopo, e il giorno ancora. Avevano cominciato a lasciarsi leggere dall’altro. Senza tanti schermi, senza troppe copertine.

In breve si avvicinarono a tal punto che, raccontando le proprie vite, non vedevano l’ora di voltare pagina. Di leggere ancora, di andare avanti.
Arrivarono a mettere tra di loro una distanza così piccola che si sentirono in diritto di fare commenti. Di scrivere qualche nota, a pie’ di pagina.

Ma la signorina Fanti, ormai diventata Sofia, accusò con fermezza da artista il Geom. Righi di mettere troppo i puntini sulle i, di voler ricondurre tutto a uno schema conosciuto. Predefinito, consolante, monotono. Tiepido.
Il Geom. Righi, sempre restato il Geom. Righi, disse che in tutto questo vivere a campo libero ravvisava la volontà di interpretare la vita in un modo un po’ comodo. Come per costruire una realtà interiore poco costretta a fare i conti con quella reale. Quella fuori, quella vera. Fredda.

Questo scambio, improvvisamente duro li fece riflettere. Inaspettatamente. Li allontanò. Cominciarono a non vedersi così di frequente. A non cercarsi.
Ma in loro il dubbio stava germogliando.
In una mente risuonava piano quel “E se avesse ragione lei?”. Mentre nell’altra faceva eco la stessa identica, opposta domanda.
Le loro sfacciate certezze, quello stile di carta, cominciarono a fare qualche piega.

Ecco: se fossimo in un film americano, adesso i due si avvicinerebbero ancora, magari si innamorerebbero, magari no. Ma di certo imparerebbero uno dall’altro. Si sfiorerebbero, in uno scambio bello e inevitabile per entrambi.
Ma non scherziamo: siamo nell’antica Fabriano. In una storia di carta! Cellulosa, al massimo. Niente celluloide!

Righi, infastidito intimamente dal discorso dei puntini sulle i, cercò di nuovo conforto nel suo mondo squadrato, ordinato. Magari prevedibile, ma comprensibile.
Sofia prese carta e penna e schizzò, disegnò, volaò, danzò. Tutto per non pensare al dolore nascosto che quelle parole le avevano portato.
Ognuno continuò come prima. Come se quasi niente fosse.

Non scherziamo. Niente film americani. Siamo nell’antica Fabriano!

Vorrei poterle dire

Tram numero noveCome ogni mattina il signor Franco va al lavoro sul tram numero 9 che va da Via Vitruvio fino a piazza Cinque Giornate. Due fermate dopo cerca tra i passeggeri che salgono in vettura, lei. La signorina Vimercati. Da anni fanno lo stesso percorso e una volta, per puro caso, è capitato che un controllore verificasse i documenti di viaggio e chiedesse ad entrambi il nome. Da quel giorno il silenzio delle buone maniere si è incrinato. E a volte si scambiano garbati commenti sul caldo, quando fa caldo. E sul freddo, quando fa freddo. La mezza stagione no, devono inventarsi altri pretesti per accennare un sorriso.
Si danno del lei, da anni. Chiamandosi “Signore” e “Signorina”. Ma si sentono incautamente vicini.

Quella mattina il signor Franco la cerca tra i viaggiatori e la vede. Perché non è mica detto che poi salgano sullo stesso tram. Basta qualche minuto in più o in meno per far evaporare questo magico equilibrio. Che sa di coincidenza, ma anche tanto di routine e di cartellini orario da timbrare. Quando non la vede, finisce che questa aspettativa delusa resti, lì, in un cantone, a fermentare per il giorno feriale successivo.
La signorina Vimercati è salita. Ma è lontana, in uno dei pochi posti liberi. E non si conviene che lui si alzi e le vada vicino. Cosa penserebbe la gente?

Allora affonda rabbiosamente lo sguardo sul Corriere della Sera, Lire 50, pagine Dall’Italia.
Scorre le parole, ma non legge.

Pronuncia a mente le parole che vorrebbe dirle. Ma non vede proprio come potrebbe.
“Vorrei poterti dire cosa voglio da te. Sì, ma se te le dicessi non capiresti. E questo mi dispera. Vorrei avere la tranquillità di chiamarti per nome, darti del tu. Ma non per insolenza.
Perché io l’ho sentito che siamo vicini. Più di quanto queste panche di legno e questa gente in mezzo possa far pensare. So che ci capiamo al volo. Anche se finisce che parliamo sempre di nulla. Perché non conviene che una signorina intavoli grandi discorsi con un uomo sposato. Con due figli, per di più.
Ecco vorrei dirti che io vorrei dormirti vicino. Ma non per portarti a letto. (Oddio cosa mi esce!). Vorrei avere questa quotidianità e la libertà di parlarti di me. E di chiederti di te. E non di dove passerai i giorni in villeggiatura estiva.
Vorrei poterti dire parole che aspettavi. E che non ci sia bisogno di chiarire.
Vorrei…”

Rialza gli occhi che aveva conficcato nel quotidiano. E’ insoddisfatto di come lo ripiega. Come al solito. Ma poche decine di metri e il tram si fermerà. Come al solito. E attraversa gli
estranei brandendo come un machete garbato il suo “Scusi, scende alla prossima?”