Eppure me l’aveva mandato. Lo aveva mandato a me, in anteprima. Forse persino in esclusiva. Ci teneva a un mio parere, ci teneva eccome.
E io volevo leggerlo. Lo volevo davvero. E mi sono trovato con un compito inaspettato e desiderato. Leggere una cosa scritta da chi si fida di me e da chi ascolta il mio giudizio. Ma quel tasto “invia” vicino al mio indirizzo è stato premuto nel giorno sbagliato, nella settimana sbagliata, nel mese sbagliato. Tante cose da fare, nessuna priorità chiara, solo emergenze gestite con sbuffi e ansia.
Ma prima di perderlo in uno spegnimento del PC, ho deciso di stamparlo. E quel compitino veloce, rimandato ma desiderato, si è trasformato in un foglio di carta. Lo metto qui, mi sono detto, e appena ho un minuto lo leggo. Ho letto solo le prime due frasi. Come assaggiare una salsa intanto che si cucina. Una specie di anteprima che non sazia, ma aumenta l’attesa.
Passano le ore e altri fogli, per moto naturale, si depositano su quel racconto da leggere. Poi altri fogli e altri ancora.
Ogni tanto quel foglio riemergeva dalla dozzina di fogli A4 e mi ricordava che era lì. “Fai con comodo, io ti aspetto qui”
Io mi fermavo a riflettere di quel regalo inatteso. Ascoltando quell’imbarazzo sottile che mi provoca il sentirmi sopravvalutato. Una sensazione che è come trovare un gioiello sul marciapiede. Che raccolgo, certo, ma che so che non mi appartiene. Sento l’attrazione magnetica della lusinga di chi mi considera degno di un consiglio, ma al tempo stesso sento la voglia di confessare “No, guarda. Lo leggo ma non voglio che tu ti aspetti troppo dal mio parere”.
Passano altri giorni, altri ancora. Sento che la mia indolenza la sta deludendo. Ne immagino i pensieri “Ma come? Era un pezzo così breve? Possibile non avere trovato mezz’ora in due settimane? No, davvero…”
Finisce che non ci penso più. Ma poi mi compare davanti, pubblicato in un blog. Lo riconosco dalle prime righe, da quel particolare delle scarpe arancioni.
Lo leggo. È stupendo. È davvero convincente, sorprendente, ben scritto. Cresce, è in equilibrio, non si sogna di dare tutte le risposte. Lascia delle questioni aperte subito dietro la gabbia toracica di chi legge. Bello.
Comincio a prendere appunti. Voglio scrivere una email intempestiva di commento. Ho voglia di dire cose, di partecipare, di contribuire. Scrivo. Parole che non sono vaghi complimenti. Sono piuttosto suggerimenti seri: per migliorare ancora, se è possibile. Ma poi mi fermo e mi sento come chi butta il biglietto vincente. Mi sento un po’ sciocco.
Tutta questa fortuna, dimenticata, buttata via… E se non fosse l’unica occasione che sto sprecando? E se non fosse l’unica bellezza a cui rinuncio? E se non fosse…
Forse dovrei scriverla davvero quell’email.
Cominciando con “Ciao Amica premurosa, sono contento di averlo letto…”
Poi non so, le parole verranno…
blog
Circolare
Daniela aveva proprio il dono della sintesi. Scriveva in modo preciso, perfetto, appuntito. Proprio perché Daniela interpretava la sua vita in modo preciso, perfetto, appuntito.
Daniela è cresciuta nell’era di internet e dei social network. Così, quando sono nati i blog, le è sembrato naturale piantarne uno. E poi è stata brava a farlo crescere. Senza troppi concimi chimici, ma ricordandosi di dare acqua spesso e una bella luce diretta.
Quando poi si è diffuso twitter, Daniela è entrata e subito quella strana costruzione è diventata casa sua.
Daniela, infatti, non ha mai avuto ripensamenti da rampa delle scale. Quelli che ti fanno venir voglia di tornare indietro a dare le risposte giuste solo quando la discussione è chiusa a doppia mandata. No, Daniela è sempre stata veloce, pronta, reattiva.
E in questo mondo nuovo si è fatta notare velocemente. Rapidità, spirito, forse anche spregiudicatezza. Il tutto servito su un letto di cultura che non si vede ma si intuisce, lì sotto.
I suoi discepoli, che queste nuove religioni chiamano lettori o seguaci o follower, crescevano di giorno in giorno. Questo portava le sue parole a diffondersi sempre più velocemente. E portava la sua fama a crescere. E la sua credibilità a rafforzarsi. Ad avere una visibilità via via maggiore. E ad avere ancora più discepoli. In un efficace meccanismo circolare. Circolare.
Quello che era un gioco da fare nei ritagli di tempo, a un certo punto ha smesso di esserlo. Daniela è presente di giorno, è presente di notte, è presente. Parla di sciocchezze, magari, ma convince.
Qualcuno la nota, le propone di fare cose nuove. In radio, in TV, su riviste di bit e di cellulosa. Daniela partecipa, non si nasconde. Non lo ha mai fatto, neanche nel mondo vecchio.
Questa metamorfosi non ha un momento chiave, ma quella che era una piacevole perdita di tempo si trasforma in occasioni, offerte, opportunità. Un lavoro. Un lavoro vero. Un lavoro di quelli che non puoi averli sognati, perché prima non esistevano.
Inizia questo lavoro e ci si butta davvero. Col cuore e col corpo. Con quel tutto o niente che tanti lettori le invidiano. Una lavoro che l’assorbe molto. Viaggi, sere, weekend. I tempi della TV non sono quelli di un ufficio. Piano piano non trova più il tempo per twitter.
L’appagamento per questa nuova vita le regala un’esaltazione che la porta a sorridere di più. A rispondere in modo entusiasta anche ai “Come stai?” più distratti. Un’esaltazione piena e rotonda. Circolare.
Inevitabilmente la frequenza dei suoi interventi nei social network si dirada. Ormai li usa come una rubrica del telefono per salutare qualche amico, magari dal treno. Ma non è come prima. Il blog, e chi ha tempo per il blog?
Il lavoro così intenso la porta ad avere un eccesso di acido lattico esistenziale. Deve un po’ rallentare, lo sente. Si prende un po’ di tempo, qualche pausa.
Ma chi l’ha conosciuta nella fase di massima accelerazione nota questo rallentamento. I nuovi lavori vengono affidati ad altri. Non c’è calcolo, solo istinto. Le occasioni si presentano meno, tanto che Daniela cerca di capire, di razionalizzare almeno.
“Dopo questa pausa” – di dice – “ripartirò da dove mi sono fermata. Un passo indietro e due avanti”.
Riprende il blog in mano. Scrive cose belle ma sono pochi i lettori di un tempo. “Ma come, non è passato nemmeno un anno dall’ultimo post?”
Riprende twitter, i social network. Dice cose per lo più ignorate. I commenti che riceve le sembrano una risposta meccanica, di rito. Non sopporta più questo modo di comunicare. E si vede. È presente, ma il suo animo è diverso. E questo la porta ad un distacco progressivo, che lei stessa alimenta senza accorgersene. Una spirale di cui lei alimenta la spinta centripeta. Circolare.
Ormai non cerca gli amici e aprire il PC è una pena.
Non capisce dove, non capisce quando. Guarda quella bottiglia di whisky che è restata sul mobile della cucina. È lì da quando le feste finivano così. E lei ne era la regina.
Si versa un bicchiere, poi un altro. Cerca di piangere e non ci riesce.
Vuole ricominciare, vuole uscire da questa spirale. Cerca un brivido, uno spunto, un appiglio. Una scossa. Vuole.
Esce dalla porta finestra che dà sul terrazzo. Appoggia il bicchiere e si sporge. Cerca nelle vertigini, forse, quella scarica di adrenalina per ripartire. La volontà o l’alcol spostano il suo baricentro in modo pericoloso.
Quaranta minuti più tardi, sotto casa sua un lenzuolo esce dal bagagliaio di una pattuglia dei carabinieri per coprire quello spettacolo.
“Non c’è niente da vedere. Circolare!”
Circolare.
Carota
Ogni inizio d’anno si fanno i propositi. Io ho smesso. Oltre alle previsioni, bigonerebbe avere il coraggio di fare i conti alla fine. I conguagli, i rendiconti. Ma visto che poi non sono capace di scegliere il giusto grado di severità, ho deciso di non farne. Niente conti. Allora neanche propositi. Che senso avrebbe fare piani se poi è già detto che non li controlleremo.
Quest’anno invece ho deciso (a gennaio) di cambiare qualcosa nel mio blog. Da pochi giorni (dalla fine di gennaio) il viola ha lasciato il posto all’arancione.
Non c’è una simbologia o un significato. Solo un cambiamento. Piccolo piccolo.
Pensandoci bene, io da piccolo questo colore non lo chiamavo neanche così. Lo chiamavo color carota. O brevemente carota. “Mi allunghi il carota che devo colorare il sole al tramonto?”.
Forse è un retaggio delle mie origini: tutti i miei avi sono nati in una terra dove crescono le carote ma non le arance. E cosa c’è di più naturale di dare agli oggetti i nomi di cose che abbiamo sotto mano?
L’attaccamento al lessico familiare così difficile da toglire. Soprattutto in mancanza di un movente. Adesso i miei figli mi prendono in giro quando dico carota come colore. E io lo faccio per sfida.
Quest’anno allora andiamo con il color carota.
La media del pollo
Mi hanno fatto notare che scrivo dei post abbastanza lunghi. A dire il vero l’avevo notato anche io, ma sentirselo dire è diverso. Se la lunghezza media fosse minore, risulterebbero più letti. Aumenterebbero i contatti, la visibilità del tuo blog. Il prestigio.
Non voglio fare finta che non mi importi di quanta gente passa per queste pagine. Per me è sempre una gioia vedere che qualcuno ha letto, riflettuto e persino commentato.
Ma voglio assecondare i miei critici statistici con un post inutile e del tutto corto. Così si riduce la lunghezza media e aumenta la leggibilità. Penso che gli stessi statistici salirebbero volentieri su un volo di linea con una bomba in grembo. Perché è statisticamente improbabile che sullo stesso volo di linea ci siano due pazzi con due bombe in grembo.
Sliding doors
Uno quando inizia ci mette anche tanto impegno. Se non tanto, almeno un po’ di più di quello riservato alle cose quotidiane. Cerca di non far fare al suo blog, la brutta fine che fanno la maggior parte dei blog. La fine dell’animale da compagnia regalato al bambino egoista. (E tutti i bambini lo sono). Che la prima settimana ci gioca. Lo scopre. Lo conosce piano piano. Dedicandogli tempo. Si industria per trovargli un nome. Ma non un nome qualsiasi. Proprio il suo nome. E poi già dalla seconda settimana, comincia a trovare noioso portarlo in giro. Gli dedica meno tempo. Gli si dedica meno. Meno.
Che se non fosse per la mamma, quell’animaletto potrebbe morire anche di fame. Dimenticato in un angolo dell’appartamento.
Per evitare di far fare al nostro blog la stessa misera fine, dovremmo pensarci prima. Prima di adottarlo e nutrirlo. Prima di farlo nostro e di dargli il nostro nome.
Io ho deciso di fare così. Ci ho pensato tanto. Anche perché la pigrizia è una brutta bestia e io la mattina non ho tempo di portare il mio blog a pisciare. E di moderarne i latrati nelle notti di luna.
Ma alla fine ho fatto il grande passo e anche io ho un blog. Giovane. Non di razza, ma è mio. Gli ho dato affetto e mi ha restituito anche qualche soddisfazione. Con quella gratuità e quella docilità e quella mancanza di calcolo che non riusciamo a trovare negli umani.
E poi di colpo mi arriva una segnalazione. “Guarda che nelle informazioni dei tuoi messaggi, dopo la firma, l’indirizzo del tuo blog è sbagliato”. Impossibile. Ma poi, indugiando con crudeltà e precisione sulla natura dell’errore “hai invertito la e con la r, quindi non porta da nessuna parte”.
“sbagliato”.
“da nessuna parte”.
Ecco. In un attimo mi passano davanti tutte le persone che, spinte da qualche sana curiosità o da qualche insano voyerismo, hanno cliccato su quel link. Link sbagliato, che non porta da nessuna parte, appunto. E che avrebbero potuto conoscermi meglio, tramite il mio blog. Magari fargli una carezza e dargli da mangiare. O semplicemente fermarsi a riflettere davanti a un suo guaito.
Quante occasioni perse. Quanti incontri mancati. E tutto per due tasti premuti nell’ordine invreso.