rinuncia

In odio della metà

mezzo

Ho sempre vissuto a metà. Per non bruciarmi subito, per non sudare troppo, per non rischiare troppo.
“Guarda: possiamo vederci ma posso restare solo una mezz’ora. Perché non una? Perché ti tieni?”
Ho via via maturato una insofferenza verso il mezzo. Una insofferenza lenta e indecisa che non lascia spazi a ripensamenti e slanci.
“Sei pazzo? Non prendo il dolce! Al massimo ne assaggio un po’ del tuo.”
Il mezzo è rinuncia incompleta, onestà parziale, castità incompiuta.
“Per venirti a trovare ho preso mezza giornata di ferie. Bravo figlio mio, ma non valevo una giornata intera?”
Il mezzo è sconfitta a tavolino o anche vittoria a tavolino, senza meriti, senza goal. E senza quel minimo di gloria è sempre una sconfitta.
“Invitante quella pasta, me ne porta una mezza porzione?”
Il mezzo è potenziale inespresso, è rinuncia, è incompiutezza. Non è proiezione di completo, non è potenzialità. È assaggio e sputo. Paura latente, mancata felicità. Ma prima o poi mi prendo la briga di andare in fondo.

Ventuno rosso dispari

roulette
Stava salendo in macchina, ma si fermò. Tornò verso di me lasciando distrattamente aperto lo sportello.
Riprese un discorso iniziato chissà quando nella sua testa.
“È proprio questo il punto. Io sono sempre stato prudentemente attento alle ragioni degli altri. Prudentemente attento alle ragioni degli altri. A tutte le ragioni, a tutti gli altri. Non so a cosa è dovuto: se a un’educazione improntata al rispetto, al riconoscimento dell’esistenza degli altri o magari a niente di tutto questo. Magari è una questione innata, scritta da qualche parte del mio DNA. Ma io mi sono sempre messo nei panni degli altri.
E non so se è sempre un bene. Certo: se si discute e si cerca una mediazione sono nella posizione giusta. Se anche devo lavorare nel marketing e capire le esigenze del cliente vado benissimo. Mi viene così naturale pensare con la sua testa!
Ma quando c’è da sgomitare, scalpitare, scalare e primeggiare: lì sono molto meno preparato. Non che mi manchino le doti o la fiducia in me stesso. Ma tante volte mi sembra insensato puntare tutto su un numero solo: 21 rosso dispari.
Molto meglio un testa o croce: si vince molto di meno, ma si ha molta più probabilità di portare a casa qualcosa”
Sorrise senza luce e entrò sulla sua macchina. Partì piano.
Non voleva andarsene senza avere chiarito. Mettendosi nei miei panni non gli sembrava corretto. E quella, se ricordo bene, è stata l’ultima cosa che mi ha detto.

Il vasino di Pandora

vasinodipandoraQuante chiacchiere si fanno ogni anno che comincia. Chiacchiere infondate, basate sul futuro fatto tutte di cose da
aggiungere. Di vette da raggiungere, di trofei da portare a casa.
Ma se per una volta giocassimo a rinunciare?
Basta aggiungere teste di alce impagliate ai nostri muri. Per una volta rinunciamo, togliamo, eliminiamo.
Visto che gennaio non è ancora finito forse ha ancora senso elencare qui di seguito le mi rinunce. Le voglio mettere tutte
in un vaso di Pandora da usare a rovescio. Anzi peggio, uso un pitale, un vasino da notte di Pandora.
Lo riempio lo tappo e via, più leggero.

  •  Le trasmissioni televisive dove tutti discutono dicendo la loro e nessuno cambia idea
  • I gioielli (meglio spendere gli stessi soldi in un viaggio). Non parliamone più, dai
  • Televisori al plasma (se proprio devo pensare al plasma voglio ricominciare a donare il sangue)
  • Rinuncio al calcio, che mi piace molto. Ma ormai è diventato troppo poco sport e troppo spettacolo. Allora meglio correre, anche da solo, anche lentamente. Ma a lungo, spingendo i miei pensieri avanti di un capoverso.
  • Rinuncio all’aggressività nel traffico. A quella insopportabile indole da giustiziere che vede soprusi ovunque. Con la conseguenza di parolacce, rabbia, nervosismo. Meglio restare nella carreggiata più larga e meno competitiva della comprensione.
  • Mollo l’auto, quando devo fare solo quattrocento metri. Riprendiamoci un po’ di strada, ché la strada insegna sempre di più della meccanica.
  • Rinuncio a sentirmi dire che sono bravo, quando non è vero. E solo io so quanto mi pesa rinunciare a questo.
  • Rinuncio al cumino, che va bene sperimentare le cucine etniche, ma questo sa proprio di terra sotto le unghie.
  • Rinuncio alle ferie di agosto, alle vacanze di massa. Mi va bene un maggio o, meglio ancora, un settembre. Non importano i temporali e le giornate più corte. Voglio respirare.
  • Rinuncio ai vestiti ancora buoni che poi, chissà perché, non metto più. Devo liberarmene, regalarli a qualcuno a cui possano servire, prima che tarme e tempo li rovinino
  • Rinuncio a comprare per sentirmi appagato e rinuncio a non compare per sentirmi una cauta formichina. Magari è ora di chiedermi cosa mi serve davvero.
  • Rinuncio ad amare troppo i miei ricordi. Anche dopo la loro naturale scadenza, quando il best before è passato da tempo. Meglio concentrarci su oggi, su adesso.
  • Rinuncio a delegare la mia felicità a concetti estranei come Lotterie, Oroscopi, Talento. Devo credere nell’impegno, nella voglia di fare.
  • Rinuncio a usare troppe parole, perché con tante parole e un po’ di parlantina sono buoni tutti. A dimostrare il vero e anche il suo contrario. Basta frasi a effetto, basta ragionamenti furbeschi, basta menare il can per l’aia. Ma questa per me è la più dura di tutte, lo so.

C’è spazio nel vasino di Pandora. Se hai voglia di fare la tua lista fammela leggere.

Il canto delle sirene di un motore a scoppio

Franco uscì di casa e si mise le chiavi in tasca. “Ma sì. Meglio così” -pensava così forte che gli sembrava di sentirne il suono- “Queste due settimane arrivano proprio al momento giusto. Non si poteva andare avanti così”.
Ester partiva col suo compagno, una vacanza in moto. E non si sarebbero sentiti per un po’.
“Ma cosa ho da pretendere da lei? Mica stiamo assieme, mica ci siamo mai promessi niente”
La cosa strana è che, anche a sbobinarle completamente, non c’era gelosia nelle budella di Franco. Solo un senso cupo di impossibilità.
E dire che le settimane passate, era stato un susseguirsi di messaggi, di email, di contatti. Telefonate mai, ma era una continenza sonora che avevano scelto quasi implicitamente. Quasi come un vezzo.
Adesso Franco andava alla fermata, a inizio settembre, ripentendosi un numero eccessivo di “Ma sì”. Credendoci. E’ questo il bello, lui ci credeva, non si stava ingannando.
Franco non si sentiva in gara. A differenza del compagno di Ester, non era un tipo da due ruote. Non avrebbe abbandonato la finta sicurezza di quattro ruote, di un tettuccio fisso e di un triplo retrovisore.

Ester intanto, viveva bene la sua vacanza. La moto legava bene con il suo passato da ribelle. E lo stare dietro con il suo presente di testa a posto. Ipnotizzata dalla lusinga sonora di un motore a quattro tempi su strade tutto sommato dritte, pensava a Franco. Gli tornava come un pensiero troppo frequente. Immaginava le parole con cui descrivergli quelle spiagge, quelle strade, quegli odori, quei momenti. Momenti da cui Franco era escluso.

Non sapendo tutto questo, in una cosa Franco aveva perfettamente ragione. Nel suo ripetitivo  “Ma sì, meglio così”