malattia

Ritiro referti

referti

L’elegante touch screen subito dopo l’ingresso della sala d’aspetto mi suggerisce le cinque categorie di prestazioni che posso richiedere. Consegna campioni biologici, Analisi, Ritiro referti, Radiodiagnostica, Visita specialistica. Ci penso un paio di secondi e sfioro la grande R di ritiro referti. La macchina lascia cadere silenziosamente il mio bigliettino, che riporta un enorme R032. Intanto che vado a sedermi, cerco il display per capire quanto dovrò aspettare. Lo schermo riporta un A012, V003, C003, R011. Non so stimare il tempo, ma ho capito che dovrò aspettare un bel po’.
Tiro fuori il kindle dallo zainetto; è la giusta occasione per andare avanti in quel saggio sul condizionamento psicologico nella corsa. Mi interessa, ma mi sono arenato poco dopo la metà. Leggo. Anzi: gli occhi scorrono, ma la mente va altrove.
E se il referto mi dicesse che non va bene come spero? Se devo fare qualche terapia: ci ho pensato a questa eventualità? Se il foglio di carta che sto per ritirare mi dicesse che devo cambiare qualcosa nella mia vita… sono pronto a questo?
Un dlin dlon di una dolcezza stucchevole segnala il cambio di numero. R013. Siamo ancora lontani. Meglio rimettermi a leggere. Non ho la concentrazione giusta, ma almeno riesco a tenere lontano questi pensieri. Forse. Forse ci riesco a tenerli lontani.
Penso a quanto sia miracoloso l’equilibrio della nostra salute. E a quanto sono stupido io che l’ho sempre data per scontato.
Il dlin dlon mi fa alzare la testa e vedo che siamo già a R017. Resto un attimo sospeso tra seguire la coda, che velocemente si scioglie davanti a me e cercare di seguire la mia lettura. Mi sforzo di pensare che andrà tutto bene. E’ andata bene fino a adesso, perché non dovrebbe essere tutto a posto?
Dlin dlon siamo al 21. Io in questi posti sono sempre insofferente, come se altri pazienti e persino il personale medico fossero tutti miei avversari. Cerco di concentrarmi su pensieri positivi. Sono civile. Non devo essere scontroso con chi non c’entra niente.
Dlin dlon 25. Non ho fretta. Il mio numero si sta avvicinando e io vorrei avere altri venti numeri davanti.
Dlin dlon 27. All’inizio dell’anno mi ero riproposto di correre almeno 100km ogni mese. Fino al mese scorso ce l’ho fatta. Mi sembrava una cosa raggiunta ormai…
Dlin dlon 28. Ma dai che andrà tutto bene: adesso chiameranno il mio numero e tutti questi pensieri cupi svanir…
Dlin dlon 29. Penso a come potrei dirlo a chi mi vuole bene. A come raccontarlo. Ma poi penso che in fondo ognuno di noi è concentrato solo sui propri acciacchi. Quindi…
Dlin dlon 30. Rimetto il kindle nello zainetto nero. Cerco una caramella in fondo allo zainetto. Trovo pile usate da smaltire e altri oggetti inumati da tempo
Dlin dlon 31. Ormai ci siamo, sta per arrivare il mio turno. Ma sì che sarà tutto a pos…
Dlin dlon 32…

Nella salute e nella malattia

anelli

Il corso fidanzati della Parrocchia di Santa Maria del Precipizio era ormai al settimo incontro su otto. “Di cui almeno 6 obbligatori” chiariva il sottotitolo del corso dalla fotocopia appesa in bacheca.
Non essendoci un vero e proprio programma i due incontri bonus venivano usati per gestire la concomitanza di partite di calcio infrasettimanali o finali di talent-show. Don Gianluca lo sapeva, tanto che poi non tirava mai la somma delle presenze e dava a tutti il nulla osta per il matrimonio in chiesa. Ma di naufragi ne aveva visti così tanti che ci teneva a mettere in guardia le coppie dagli errori di scelte avventate.
Quel giorno, poi, aveva avuto discussioni antipatiche in vicariato per via di lavori edili che non sapeva come pagare e di altre cosa che acuivano il suo senso di inutilità. “Il tempio del Signore” brontolava tra sé e sé tornando con le tasche vuote, “Ma qui te lo fanno costruire senza un mutuo”

Iniziò l’incontro senza indugio, alla chi c’è c’è.
Fece sedere le coppie di fidanzati in cerchio, come al solito e li fissò lungamente in silenzio, uno per uno, senza alzarsi dalla sedia. Dopo questo interminabile minuto iniziò.

Sapete quale è il problema? È che noi ci innamoriamo di momenti e vorremmo che durassero per sempre. Vorremmo dilatarli, essere felici per sempre. Ma quale sempre, ma quale eterno? Li lasciò macerare nel silenzio. Poi, dando sfoggio di grande memoria li guardò ad uno ad uno e questa volta parlò.
Roberto: hai capito che è per sempre?
Non attese una risposta
Elena: per sempre!
Passò a torturare la coppia successiva: Enrico per sempre. Elisabetta per sempre.
E così per Marta, Luigi. Omar, Elena. E tutti gli altri.
Nessuno rispondeva a quella che non era una domanda ma solo un’affettuosa intimidazione.
Riprese.
Adesso voi state progettando la vostra vita insieme. Riuscite quasi a intravvederle le vostre vite future. Le vedete entusiasmanti, ricche, luminose. Ma guardatevi attorno: sono così le vite di chi vi sta intorno?
Siamo tutti bravi a costruire ville sulla carta. Ci mettiamo un primo piano, un secondo, un solarium. La giusta esposizione alla luce, magari un giardino. Ma rendetevi conto che nessuno di voi, nessuno di noi (mi ci metto dentro anche io) sa fare calcoli strutturali.
La realizzazione delle nostre vite non somiglia mai al disegno che avevamo allegato alla licenza edilizia.
Vi rendete conto di questo?

L’incontro finì con tre quarti d’ora d’anticipo rispetto al solito. Don Gianluca salutò tutti con gentilezza e si ritirò nella sua stanza.
Qualcuno pesò bene le parole sentite quella sera. Qualcun altro guardò l’orario sul cellulare, calcolando l’impatto di quella chiusura anticipata sui palinsesti televisivi.

Respect!

aretha

Luca la settimana scorsa si è ammalato. Ha preso una influenza strana. Febbre alta e una difficoltà a respirare durante la notte.

Ci siamo alternati nel lettone, Francesca ed io, in modo che ci fosse uno a controllare la situazione e l’altro a riposare. Per essere sveglio il giorno dopo.
Respirava così male che ogni tanto si svegliava in apnea, spaventato. La mattina poi non lo sentivo più e mi sono spaventato io, tanto che ho controllato se respirasse ancora. Lo so, un’idiozia, ma posso sempre dare la colpa al sonno irregolare.
Abbiamo passato sabato e domenica in cattività. Adesso i bimbi crescono e vengono ripescati alcuni film che tenevamo da parte perché contengono un linguaggio che non ci piacerebbe ripetessero. Niente di speciale: ma se ascoltate bene la filmografia degli anni Ottanta c’era un certo gusto alla parolaccia come rafforzativo del niente.
(Se sembro troppo il MOIGE potete picchiarmi sulla testa dandomi del cretino)
Allora abbiamo tirato fuori anche i Goonies e persino The Blues Brothers.
Prima però i patti: “In questo film dicono della parolacce. Non è che voi non le dovete sapere. Ma sta a voi la scelta di non usarle. Le usa chi non ha altri argomenti”.
Non so quanto tutta questa logica abbia lasciato qualcosa. Ma almeno il bollino a tutela dei minori l’ho messo.
Abbiamo guardato i Blues Brothers assieme. E ogni tanto mi appassionavo a quei miti della musica Motown che riemergevano da quella pellicola.
Ma, ma quello è Ray Charles! Ma quello è Cab Calloway! Ma quella è Aretha Franklin…
Oggi Luca sta meglio. Febbre passata.
La sua carnagione chiara è particolarmente pallida ma è di buon umore. Stamattina gli ho chiesto di darmi una mano a stendere i panni, che con questo tempo facciamo asciugare in casa. Lui invece ha preso una molletta e mi ha cantato il pezzo dove Aretha Franklin in Think grida  “Respect!” Coreografia compresa.
Ok, domani torna a scuola.

Ma lui trema

alluminioPrima una breve telefonata. “Ciao. Quanti anni sono passati? Non possono essere così tanti. So che ti sei trasferito lì. Ci devo passare per lavoro. Dai che facciamo quattro chiacchiere, magari andiamo a cena assieme”.
Poi quando un appuntamento viene incastrato a martellate in due agende, finisce per prendere una forma strana.
Alla fine è diventato un caffè, in uno dei tanti bar che nella stagione giusta accolgono i turisti che si allontanano dalla stazione cominciando a cercare l’odore del sale.
Ma il nostro mare non ha acqua salata, ma è pieno di ricordi. Di anni passati a scuola insieme e di storie vecchie che, se fossimo così stupidi da raccontarle a qualcuno che non c’era, sembrerebbero insignificanti.
Ci squadriamo reciprocamente, senza badare troppo se si nota. Cerchiamo di valutare nell’altro come il tempo ha segnato il suo passaggio. Chili in più, capelli in meno, cose così.
Il tavolino di alluminio è stabile e pulito. Ci accomodiamo e lo noto quasi subito.
Lui trema. Si tiene le mani e non capisco se sia per nasconderlo o per cercare di controllarsi.
Ma lui trema.
Io fingo di non vedere, ma lui trema.
No, non può essere. Non tu, amico mio. Mentre parliamo di niente cerco di farmi strada tra quelle malattie coi nomi degli scienziati.
Parkinson, Alzheimer, chi era? Qual era quello più grave?
Vorrei scappare, vigliacco che sono. Vorrei avere le parole giuste.
Ma che cazzo gli dico a un vecchio amico che ha la mia età e che trema?
Siamo irrimediabilmente soli. Io con le mie parole che non ascolto e lui con il suo tremore. Comincio a coniugare la sua sorte alla prima persona singolare. E se fossi io? E se fosse toccato a me? E se toccasse a me?
Poi cerco di scappare in un comodo “Ma no forse è un’impressione, cosa ne so?”. Ma questo non convince neanche me.
Il nostro incontro dura poco, ma ben di più di quanto ci sia rimasto da dirci.
Riprendo il treno controllando il posto sulla prenotazione.
Mi metto le cuffie cercando una playlist che mi faccia dormire. Dormire e non pensare.
Ma lui trema.

Ti lascio tutto sul tavolo

spesa febbreScusa se entro in casa tua senza avvisare. So che la chiave è sempre lì, sotto lo zerbino. Quante volte ho detto che non dovresti, che così potrebbe entrare chiunque? Ma poi mi ripeto e lascio perdere.
Ti lascio due righe per spiegarti. Non ti sveglio, con quella febbre è meglio se dormi un po’.
Ho fatto la spesa per me, qui vicino, e ho pensato alla tua febbre e a portarti qualcosa. Mi sembrava un gesto che si intona bene alla nostra amicizia.
Ti lascio la sporta sul tavolo, poi vedi tu.
Ti ho messo un thermos con un po’ di brodino. No, non ridere: il brodino non è una cosa da vecchi. Prima o poi spero che tu capisca la bellezza di un brodino, per gli occhi e per il naso, prima che per il palato.
Ho preso dei mandarini e mele. Arance da spremuta no, erano brutte.
Ti ho preso il pane e la Settimana Enigmistica. Niente notizie, niente attualità.
Un mezzo litro di latte intero.
E otto pacchetti di fazzoletti di carta.
Ah la gamba di sedano è per me. Adoro quando sbuca dalla borsa della spesa, non farci caso.
Il foglio è quasi finito, quando ti svegli dimmi come stai.
Simone

Il cristallo

cristalloSono venuto a trovarti, ho parcheggiato fuori, vicino alla scritta “Parcheggio visitatori”. Mi fanno entrare dopo avermi fatto spiegato meccanicamente come funzionano le visite. Mi fanno anche firmare dei documenti troppo lunghi per leggerli adesso, ma tanto so che dicono che ho capito tutto e che sono d’accordo.
Firmo, metto nella cassetta tutti gli oggetti appuntiti, l’orologio, il cellulare. Sono spaventato da queste cautele, ma dove sei finita? Ma come diavolo ci sei finita?
Mi viene istintivo ribellarmi a tutto questo, ma cerco di stare calmo. Dopo tutto chi ho di fronte è solo un dipendente che sta rispettando il regolamento. Il maledetto protocollo.

Cammino veloce, dietro una donna vestita di bianco che mi porta in corridoi troppo luminosi, troppo disinfettati, troppo artificiali.
Mi dice che la visita durerà quindici minuti, che devo essere tranquillo, che devo cercare di infondere serenità, che se qualcosa non andasse per il verso giusto la visita finirebbe subito. Mi dice di non spaventarmi, che all’inizio tutti sembrano un po’ spaesati, ma stanno bene.
C’è una sedia di plastica, in questa mezza stanza, e un grande cristallo davanti. Che mi separa da te. Ti vedo lì dentro, spettinata, sembri assorta. Hai la faccia stanca, tanto stanca. Lo stesso sguardo di quando passavamo ore a letto a parlare invece di dormire, perché avevamo sempre un’altra cosa da raccontarci. Ma oggi non c’è quell’entusiasmo.
Mi rendo conto che non c’è un citofono, un interfono, un modo per fare arrivare la mia voce. Il cristallo è spesso, per la sicurezza di tutti, mi aveva ammonito l’addetto all’entrata, ripetendo a occhi bassi quella che per lui doveva essere una litania.
Mi avvicino al vetro, appoggio i palmi. Tu sei sveglia ma non ti avvicini, non mi guardi. Quanto narcotico hanno usato per renderti così, bestia in gabbia, senza volontà?
Vorrei che ti avvicinassi, che mettessi la mano all’altezza della mia, per avere l’illusione di toccarla.
Tengo il palmi sul vetro e senza accorgemene avvicino il viso, per vedere meglio dentro, per cercare di sentirti. Ma più mi avvicino più si appanna e la visione è subito confusa.
Mi sbraccio, mi agito, mimo le parole con la bocca che fa giri enormi. Ma tu guardi dall’altra parte. Come se ci fosse uno specchio che riflette dalla tua parte. Come se non potessi vedermi.

Ma so che non c’è nessuno specchio, non nella stanza dove sei tu. Come ti dico che ci sono, che sono qui? Come te lo posso dire?
Venga signore, il tempo è finito: dobbiamo uscire.

Varicella spazio temporale.

Luca mi chiede di accarezzargli la schiena.

Forse la parola giusta, quella che vorrebbe dire è “grattare”. Ma grattare non si può, che poi magari resta il segno. Poverino: è proprio pieno.  Ma è fin troppo bravo. Non si lamenta. Quei due occhi verdi da furbino. Quella sua bella faccia, adesso non è bella come una settimana fa. Piena di pustole e di puntini rossi. Ridicolmente imbiancate di ditate di un medicamento che gli  mettiamo su ogni singolo puntino. E lo fa assomigliare a un guerriero masai, però malato. Io la guardo con diffidenza perché quando avevo la varicella io, usavamo il talco mentolato. Ma funziona, quella robaccia, e lo fa stare meglio. E la uso.

Appena smetto, Luca me lo richiede, di accarezzargli la schiena.

Vorrei dirgli che ci vuole tempo e ci vuole pazienza. Lui non parla e in quel silenzio me lo immagino con il triplo o il quadruplo dei suoi cinque anni. Quando magari una ragazza gli spezzerà il cuore e io, ancora una volta, non avrei nessun rimedio efficace. Solo tempo e pazienza. Tempo e pazienza. Ma niente di davvero efficace.

Ma sono sicuro che allora non me lo chiederà, di accarezzargli la schiena. Perché a vent’anni un padre è un nemico o, al minimo, un estraneo. E sono sicuro che allora pagherei perché me lo chiedesse. Magari rimpiangendola persino, questa varicella.

Pensando come un idiota ai suoi cinque anni e a queste carezze.