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Il tagliacarte

tagliacarteDopo un’estate di attesa, finalmente arrivò la lettera di risposta dalla prestigiosissima Università di Lipsia. Cielo: Lipsia! Non Magdeburgo, Dresda o Gottinga: proprio Lipsia. Lipsia!
Una lettera così era il sogno di ogni giovane che avesse finito gli studi liceali. Adesso si trattava di fare sul serio: puntare verso uno dei tanti futuri possibili e misurarsi. Verificare se il talento, la fatica, l’impegno erano sufficienti per guadagnarsi quel futuro di prestigio e agi a cui ambiva.
E l’Università di Lipsia era senz’altro un trampolino ideale per spiccare questo dannato volo.

Ci aveva pensato tanto a questo momento, nelle settimane passate. Aveva visualizzato istante per istante il rito dell’apertura della busta. L’istante esatto in cui la busta viene lacerata e la lettera smette per sempre di essere carta e diventa un messaggio. Chiudendo gli occhi aveva visto decine di volte il gesto mai troppo preciso del tagliacarte, le punte delle dita che afferrano un angolo e la lettera che viene spiegata. E gli occhi che corrono giù, lungo tutte quelle parole inutili (indirizzo, data, oggetto, convenevoli) fino ad arrivare al cuore.

Un sì all’ammissione avrebbe significato un primo passo nella direzione giusta.
Un no, per contro, sarebbe stato un primo gravissimo intoppo verso la conquista di quel sogno. E verso l’incauta sicurezza di poterci arrivare.
Un momento così, però, non poteva essere vissuto in modo casuale. Aveva bisogno di un posto perfetto per essere celebrato. Per questo, con la lettera in mano, Gustav prese la bicicletta e andò sulla panchina vicino al molo del laghetto. Quella sotto il salice, dove lui amava leggere e dove gli innamorati andavano la domenica a noleggiare una delle barche rosse per remare e fingere di parlare del lago.

Estrasse la busta dalla tasca della sua giacca. Cercò nella sacca il tagliacarte. Ripercorse a mente le conseguenze di un no e di un sì. Cacciò lontano i pensieri brutti con un respiro molto più profondo del solito e si sforzò di essere ottimista. Il tagliacarte entrò a fatica nella piega e tagliò la piega superiore. La lettera venne estratta e l’occhio cadde pesantemente su un avverbio “malgrado”.
Malgrado la sua candidatura presenti numerosi aspetti positivi, ci rincresce comunicarle che…

Cellulosa gentile

cellulosa

Anche tralasciando la deriva cacofonica, sono davvero strani i differenti destini che aspettano ogni singola cellula di cellulosa.

A volte la cellula nasce come parte di un filo d’erba. E dura il tempo di una stagione.

Altre volte nasce albero e finisce per restare imprigionata decenni nello stesso posto. Poi l’albero cade nel bosco e ogni sua molecola torna a liberare sulla terra i suoi componenti. Oppure no, viene tagliato dal boscaiolo. Allora l’albero diventa trave di una chiesetta e la cellulosa guarda per due secoli i fedeli che cercando un dio col naso all’insù.
Oppure diventa cassetta per la frutta. Assemblata, spedita, accatastata, riempita, consegnata, smaltita.
O può diventare legna da ardere. Il calore aumenta e con gioia la molecola viene divorata in un calore ipnotico di un caminetto.

Altre volte la cellulosa diventa pasta di carta e finisce in imballaggi, quotidiani, libri o quaderni.

Non so cosa pensino di preciso le singole particelle di cellulosa di questa riflessione. Ma so per certo che alcune di loro possono essere molto fiere del loro ruolo.
Alcune di loro sono diventate carta di block notes, su cui ho scritto una lettera anni fa, dal mezzo di una vacanza. A una lei che tornava in autobus, mentre il mio tempo continuava. Una nuova amica che non era una conquista. Era una amica destinata a restare amica a lungo. E quei sorrisini sono fuori luogo, davvero. Una sintonia fatta di stupidità e ragione, di divertimento e impegno, di sorrisi e rutti.
Non c’era innamoramento, no. E quello non è arrivato neanche dopo. Ma c’era una lettera che parlava di questa amicizia nuova.

Quelle particelle di cellulosa hanno resistito agli anni e alla noia, finendo in fondo a una scatola di scarpe. E poi, d’improvviso hanno rivisto la luce e hanno riportato a lei i ricordi e il calore di quell’agosto.
Tanto che ha sentito la voglia di mandarmene una foto, di quelle parole.

Ecco: io sono grato a quella cellulosa che è stata così delicata nei miei confronti per tutto questo tempo.

Senza rimpianti, Egregio Direttore

signordirettoreEgregio Direttore,
le scrivo per chiederle di cestinare la mia lettera del 6 novembre scorso.
Visti i tempi del regio servizio postale non sono sicuro che le sia già arrivata, adesso che ha in mano questa mia seconda richiesta.
Il fatto è che subito dopo averla spedita, prima ancora che potesse essere giunta sulla sua scrivania, già me ne ero seriamente pentito.
L’idea di farle leggere un mio pezzo e chiedere il parere, mi è sembrata improvvida e molesta. E se le scrivo è solo a causa di una benedetta remora, mostratasi però solo con una intempestività da maledire.
Chissà cosa credevo mandando quei racconti proprio a lei, direttore di un prestigioso giornale. Forse, ma è solo un’ipotesi, in cuor mio speravo di suscitarle un’emozione tale da muoverla a chiamarmi. A mettersi (lei!) in contatto con me. A spingermi a lavorare per lei. Eventualità questa per cui non sono sicuro di avere nemmeno la motivazione adatta. Senza poi dovere fare i conti con la tecnica e il cosiddetto talento necessari.
Mi creda: dopo quasi due notti di sonni agitati e discontinui, mi sono risoluto a scriverle.
Ho pensato mille volte al modo esatto. Per evitare di esserle, per per paradosso, di nuovo di impiccio.
Ho pensato di scriverle citando quel passaggio di Pavese, nella luna e i falò, ricorda? Quello in cui si immaginava in America a maneggiare soldi e scrivere delle lettere. Col pensiero di seguirle poi per mare, quelle sue lettere. E io come quel personaggio a inseguire le mie. Ma poi sarebbe stato solo un noioso esercizio di sfoggio di cultura casuale. Io che di libri ne ho letti davvero pochi. E mi creda, questa non è una iperbole a calare. E’ una stima assai prudente dei pochi volumi a cui sono arrivato in fondo. Vede? Ci ricasco. Mi vesto di una parvenza di chissà cosa. Nomino figure retoriche come un ginnasiale vanitoso.
Si renderà conto che scrivere mi viene naturale, ma non penso che questa sia una cosa sana. Non mi appartiene più. Non è la mia strada.
Facciamo così: cestini tutte e due le lettere. Lavorare nella sua redazione è stato il mio sogno per anni. Ma adesso che sento di averlo quasi a portata di mano non mi interessa più. Non mi regala più nessun brivido.
Seguirò i cicli della terra nella fattoria di mio padre, dove sono nato. E riassaporerò il gusto delle parole solo la sera, alla luce del lume, in piena libertà. Senza rimpianti, Egregio Direttore.
Auguro ogni bene a lei e alla sua testata.

L’essenzialita’ della nube di parole.

collasso di nube insterstellare supernovaOggi mi sono trovato davanti a una lettera che avevo proprio voglia di scrivere. Non avevo ancora iniziato e pensavo a cosa fosse opportuno scrivere, in quale ordine. Quale gerarchia dare ai ragionamenti. Quanto cedere all’istinto e quanto concedere alla razionalità. Prima ancora di avere preso la penna (o aperto il pc) avevo già adottato una mezza dozzina di concetti differenti. Per poi abbandonarli senza troppe remore. Senza una vera insoddisfazione o insofferenza. Guidato solo dall’intuizione che ci fosse un modo migliore per dire quello che volevo esprimere.

Faccio un salto di un migliaio di chilometri. In Aquitania abita un artista affascinante che si chiama Nöel. Lo conosco perché è il padre di mia cognata. Negli anni la sua espressione artistica si è evoluta con un progressivo collasso del segno. Quando ero ospite da loro, la figlia (donna di gusto) brontolava col padre. Mi ha colpito un commento, fatto con la imprecisa licenza di figlia, che in italiano sarebbe suonato un po’ così: “se continui così, a ridurre, a rendere essenziale sempre di più… alla fine la tua opera collassa, svanisce, sparisce”. E lui, con un sorriso intelligente ha risposto “Ecco!”.

La mia lettera alla fine è collassata. E cercando di indossare lo stesso sorriso, non ho più scritto niente.

Ecco.

Non è che mi sono dimenticato

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Carissima,
sono contento che tu mi abbia scritto. Mi hai scritto per gli auguri.
No, non per farmi gli auguri: solo per rinfacciarmi che mi sono dimenticato di dirti buon compleanno.
Mi chiami ancora “socio” come tanti anni e tanti chilometri fa. E questo mi piace. E mi piace che ci prendiamo ancora volentieri per i fondelli.
Mi spiace invece che ci sentiamo tre volte l’anno e ci vediamo con una frequenza che è l’inverso della frazione precedente. No, non strabuzzare gli occhi: scherzavo. Ah no, scusa, non volevo dire che hai gli occhi storti. On, no: l’ho detto!
E’ incredibile: anche per iscritto finiamo sempre per dire stupidate e divaghiamo.
Ma se non ti ho fatto gli auguri un motivo c’è. Ma non ce la faccio: tu meriti di più di una scusa banale. Di più di una spiegazione qualsiasi.
Per questo di scuse te ne ho scritte tante. E ti faccio anche scegliere quella che ti sta meglio addosso.

  • Scusa #1: Non è che mi sono dimenticato, è che voglio fartene due l’anno prossimo.
  • Scusa #2: Ti stavo mandando un bacio, ma ho pensato che a 33 anni, magari non era un bel gesto.
  • Scusa #3: Ma dai! Sono già passati 13 mesi? Dodici? Lo vedi che coi numeri sono una frana!
  • Scusa #4: No, non ho dimenticato il tuo compleanno. Ma ho visto su Voyager che il calendario va riscritto per i resti del bisestile, hai sentito anche tu, vero?
  • Scusa #5: Ormai sei grande e te lo possiamo dire. Sei adottata e sei nata in febbraio.
  • Scusa #6: Ho comprato un orologio bellissimo a New York. E’ perfetto, solo che non ho capito questa faccenda del mese al posto del giorno.
  • Scusa #7: Ma come? Volevo farti degli auguri speciali e ti ho mandato un mazzo di fiori per posta. Sono arrivati, vero?
  • Scusa #8: Compleanno? Fammi controllare: come hai detto di chiamarti…

E se non dovesse bastare, continuerò a chiedere alla gentaglia che mi rivolge le parole, di suggerimene altre.

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Lettera ad un amico che esce

No, già il titolo è sbagliato. Sembra proprio un Guccini di quelli pesanti di Stanze di Vita Quotidiana. No, ma io volevo dirti che ho apprezzato molto il fatto che ti sia preso la briga di scrivere quelle poche parole. Ricordarti di scrivere a quei pochi di noi che non avevi avuto modo di salutare. Scrivere che uscivi dal gruppo “per una serie di motivi che sarebbe lungo ed inutile stare a spiegare”.

La prima reazione è chiedermi perché. Chiedermi se poi il gruppo senza di te sarà lo stesso. No, non lo sarà (ma questa è la risposta sbagliata). La risposta giusta è invece che il tuo messaggio è molto bello.  Senza recriminazioni. Senza retorica. Senza analisi fuori luogo. Senza sentimentalismi. Un affetto senza fronzoli.

Mi è piaciuto fare un pezzo di strada assieme. E (se da te ho imparato qualcosa) non voglio cedere alla tentazione di chiedermi cosa sarebbe stato farne un altro pezzo.

“Ci si legge state bene.”

Per un attimo penso che mi piacerebbe davvero, passando per la tua città, scendere e suonarti al campanello di casa. O anche solo cercare il numero civico e poi giudicare che ormai non ha senso pigiare il tuo nome sul citofono.

Stammi bene.