Tu quell’albero di cachi

Partendo dal fienile, oltre il letamaio oramai traformato in accumulo di attrezzi arrugginiti e vespe cartonaie, c’era il frutteto. Un piccolo quadrato di terra, nato forse come avanzo dalla quadrangolare geometria meccanizzata del campo da arare e la lineare distesa di vigne da lambrusco. E in quel quadrato piccolo, un assortimento di alberi da frutto che sembrava crescesse da solo.

Il ciliegio ci aveva visto scalatori con i vestiti feriti dalla resina che non va più via. Noi con le piume di gallina fissate sulle tempie da una striscia di lenzuolo, a fare imboscate da veri indiani. Noi che arrivavamo sempre troppo tardi per quelle ciliegie che maturavano prima dello scrutinio e che oramai erano per terra, preda di api e insetti meno rispettabili. Ciliegio che ci ha insegnato che non conta essere l’albero più grande, se poi un male piccolissimo te lo porti dentro e la primavera dopo non ci sono più foglie per respirare e diventi un monumento a te stesso.

Ma l’albicocco quello sì che ce ne ha dati di frutti. Arrampicarci era una sofferenza perché il tronco era troppo poco liscio e i jeans tagliati troppo poco lunghi. Ma il gusto di aprire quei frutti tiepidi con le mani e vedere i noccioli che si staccavano alla perfezione, ti facevano perdonare anche quelli inaspettattamente asprigni.

I pruni no, non li abbiamo mai amati. Piante forti, basse e puntute. Rametti duri come una periferia. Frutti lisci e aspri come una domenica a Milano. E nomi che non abbiamo mai voluto imparare. Prugne gialle, mirabelle, prugne e basta, goccia d’oro, forse, susine. Preferivamo cercarli sotto, i frutti. Magari soffiando via quelle formiche che erano arrivate prima di noi, ma che non ci hanno mai fatto schifo, a differenza delle mosche.

Il filare di viti da tavola era un mistero. Non sapevamo seguire i tralci per capirne i frutti e ci sembrava che spuntassero grappoli in modo casuale. Come colore, come grandezza e come maturazione. Qualcuno si improvvisava esperto dicendo che a quest’altezza doveva esserci quella più matura. Ma era un bluff, lo aveva sentido dire ai grandi che sapevano di cosa parlavano.

Ma poi quella pianta aliena, l’albero di cachi. Così piena di foglie cerulee d’estate, da sembrare finta. Quella pianta folta e poco attraente che non era buona per arrampicarcisi. Aveva d’estate frutti duri come le tabelline del sette. Verdi come le divise dei soldati e per nulla interessanti, se non da usare come bombe a mano, ma senza far vedere ai grandi che ne avevamo staccato uno.

Mi ritrovo qui adesso che è inverno e di estati ne sono passate davvero tante. La pianta è ancora lì, ferma che domina il frutteto. Siamo cresciuti molto, tutti e due, eh! In questo freddo umido dell’inizio di dicembre, quando tutte le altre hanno perso le foglie e i frutti da tempo. La vedo ferma, finalmente collocata nel suo tempo, che sembrava non potesse arrivare mai. Gravida di frutti che da verde timido sono diventati contemporaneamente arancione chiaro e che adesso sono braci che risaltano nel grigio nebbioso della campagna umida attorno. Si accendono. Silenziosi. Espliciti. E io fermo che non so staccarle gli occhi di dosso. Sono fermo. Quasi immobile nel freddo e guardo il mio respiro che diventa fumo sfocato. Guardo la sua perfezione fragile e altera. Piccola, ma più grande di me. Armoniosa nella sua struttura simmetrica. Nessuna paura di essere nuda di foglie ma ricca di tutti quei frutti colorati e inattaccabili che porta con forza materna. Mi è sembrato di leggerci dentro la consapevolezza serena e silenziosa che si ha dopo aver passato una vita a costruirsi una cultura con lentezza. Sono rimasto così, senza contare i minuti. A guardare alla giusta distanza quell’albero di cachi e la mia nuova consapevolezza di non poterci arrivare.

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