guerra

La cartolina

cartolina fronte

Oramai era luglio e secondo i suoi calcoli, la cartolina doveva essere già arrivata da un po’. Ma ancora niente. Non un cartolina illustrata con una fotografia di località di villeggiatura: spiagge lunghe e persone facoltose in eleganti costumi di lana in primo piano. Non una cartolina da un parente vicino emigrato in un paese lontano, che dietro a mille incertezze della lingua parla della sua fiducia nel futuro. Non la cartolina di un amata, con quelle quattro parole pudiche che in fondo non dicono niente, ma attraverso le quali è bello sognare un futuro di possibilità.
Quella che aspettava Nato era una cartolina prestampata, senza illustrazioni. Forse senza nemmeno il profilo del re sul francobollo. Una cartolina formale, scritta in un gergo che conosceva bene. Aveva passato venti mesi nel servizio di leva in artiglieria alpina. E adesso che la guerra durava più del previsto i giornali avevano diffuso la notizia che prima della fine della primavera, al massimo a inizio estate, sarebbero stati richiamati quelli del suo anno.
Ormai aveva passato i quaranta e mai avrebbe pensato di dover tornare a indossare una divisa, implotonarsi, marciare in ordine, dividere una camerata con sconosciuti. Rispondere signorsì a un tenentino con la metà dei suoi anni.
Non lo dava a vedere ma ci pensava eccome.
Ma erano passati marzo e aprile in un soffio. Maggio doveva essere maggio il mese della cartolina, ma niente. Neppure giugno, che ormai era quasi sicuro, aveva portato niente. Allora luglio, questo luglio fatto di covoni di paglia, che il grano è già stato mietuto e ti sembra di tirareeun po’ il fiato.
Quando il postino con la sua Umberto Dei nera percorreva verso mezzodì la strada Baratte, lui lo vedeva arrivare da lontano. Fingeva di non accorgersene e continuava a occuparsi di qualche improrogabile banalità. Fare il filo a un ferro per falciare, mettere il manico a una vanga, fare la punta ai pali da piantare nell’orto per tenere su i fagioli ormai cadenti.
Ma nella sua testa era un ribollire di ipotesi. Se mi mandano al fronte la paga è buona. Ma si rischia e se poi non torno ai miei figli chi ci pensa? Se mi mandano nelle retrovia chissà quando torno. Se mi fanno furiere, ma sì in fureria ci vanno solo quelli che hanno un santo in paradiso. E qui il paradiso al massimo lo vediamo dipinto sui muri della chiesa. E se mi nascondo nel granaio come Trevisi? E poi? Chi lo sa se mi prendono cosa mi fanno. Mi fucilano forse, o mi trattano da traditore. Ma io non ho mai tradito nessuno. Solo che di guerre ne ho viste passare da bambino e so che quelli come me hanno solo da perderci.

-Buondì Brusco! Qualcosa di nuovo?
Il Brusco, che un giorno deve avere avuto persino un nome, si fermava: frugava nella borsa di cuoio fissata sul portapacchi anteriore della bicicletta e diceva in un italiano improvvisato: “Me ne dispiace, anche oggi niente”. Come se quella che doveva arrivare fosse per forza una buona notizia o una eredità dall’America.
I giorni passavano e Nato faceva sempre più fatica a fingere di non pensarci.
Appuntiva pali, tagliava bruscoli col falcione, spennava capponi. E fingeva di vivere senza fare attenzione a quella consegna che forse gli avrebbe cambiato la vita.

Non voleva neanche pensare che quella cartolina ci mettesse così tanto da far prima finire la guerra. Sarebbe stato un sogno, e i sogni fatti al momento sbagliato si sa che portano delusioni ancora più forti.
Avanti così, un giorno alla volta. Senza sapere bene cosa sperare. Un giorno alla volta.

È successo un Bataclan (Parigi spiegata ai miei figli)

"Paris" di Paola Patrizi

La mattina dopo i fatti di Parigi è sabato e, dopo la piscina, guardiamo le news con i bambini. Non guardiamo quasi mai i telegiornali, visto che la televisione è spesso spenta e le notizie le assorbiamo dai vari aggeggi collegati a internet. Ma quello che è successo è una cosa grave e importante. E poi oramai loro sono grandicelli e, istintivamente, permettiamo loro di sdraiarsi davanti alla TV a guardare i filmati che arrivano da Parigi. La mia speranza è che vedano e che facciano domande. Magari a casa con calma qualche risposta sensata possiamo cercare di darla. Prima che, inevitabilmente, vengano travolti dal vento della demagogia e dell’odio low-cost che già sento avvicinarsi.
Sono domande sciolte, slegate, che non seguono sempre un filo narrativo, ma si vede che sono il risultato di una riflessione e di una paura.

È successa una cosa brutta, bruttissima, sì. No, non lo so neanche io il perché. So che molte persone pensano che noi occidentali stiamo facendo di tutto per distruggerli. No che non è vero: ma sforziamoci di capire le loro ragioni. Non le ragioni di chi prende un kalashnikov e spara per strada, ma le ragioni di chi non ci sopporta. È  solo invidia o nel nostro vivere da ricchi abbiamo qualche responsabilità?

E adesso cosa ci succede? Non lo so cosa succede. So che i terroristi, tutti i terroristi, vogliono spaventarci. Vogliono terrorizzarci, come dice la parola. La cosa che possiamo fare noi è non avere paura. Non serve il coraggio per reagire militarmente, serve il coraggio di vivere le nostre vite con normalità e farci domande.

Come cambia il mondo adesso? Quando sono venute giù le torri gemelle, voi non eravate ancora nati. Qualcuno ha commentato a caldo “Il mondo da oggi non sarà più lo stesso”. Mi sembrava una frase pomposa, ma mi è rimasta in mente. E tante volte ho pensato che riassumeva bene il senso di svolta, di pagina di calendario strappata per sempre che in quel giorno abbiamo vissuto.
I miei nonni dicevano “è successo un quarantotto” riferendosi ai moti del 1848. Poi hanno detto “è successo un Amba Aradam” per descrivere una situazione confusa con continui capovolgimenti come nella battaglia del 1936. Chissà che in futuro non direte “è successo un altro Bataclan” per sottolineare l’orrore, l’impotenza e lo spavento di questi giorni.

Ma attaccheranno anche noi? Vorrei dirti di no, dirti che siamo al sicuro, piccolo mio. Ma ti dico invece che non lo so. Probabilmente faranno altri gesti orribili come quelli di Parigi. Forse li faranno qui, nella nostra città. Ma cosa possiamo fare? Se ti dicessero che oggi un pazzo andrà fuori casa e sparerà a tre persone cosa faresti? Smetteresti di andare a scuola, di andare a giocare a pallone, di andare a fare la spesa? Così con una minaccia chi vuole farci del male ha già vinto perché ci ha fatto paura e ha cambiato il nostro modo di vivere. Se su una città di tre milioni di persone uno spara a tre persone, che probabilità c’è che colpisca te? Bravo: una su un milione. Ma questo vuol dire che non ha senso starsene chiusi in casa come prigionieri. Anzi dobbiamo uscire di casa e sorridere. E sforzarci di non cadere nel gioco di chi vuole imporci l’odio.

Ma non possiamo bombardarli? Ma se tu vedi un nido di vespe cosa fai: tiri i sassi o stai lontano? Se vuoi essere punto il modo migliore è tirare i sassi. Se invece stai lontano è meglio. Se poi hai il coraggio di avvicinarti con calma e di guardare il loro viavai, magari capisci che ti hanno punto perché si sono sentite minacciate o per un errore, non perché sono cattive.
Noi siamo più forti, ma ogni volta che a un gesto violento abbiamo risposto con più violenza siamo sempre finiti male. Tutti. Dopo una guerra non ci sono vincitori e sconfitti. Ci sono famiglie che hanno perso i loro papà o i loro figli o i loro amici. La guerra è una brutta bestia che morde amici e nemici.

Ma io quelli li odio! Ma sei sicuro che l’odio e la paura non siano due facce della stessa debolezza? Sforziamoci di essere normali e di vivere con coraggio. Sforziamo di distinguere tra quella decina di terroristi (da condannare con fermezza) e tutti il miliardo e passa di musulmani che ci sono al mondo. Il tuo compagno di classe Ahmed somiglia più a loro o somiglia più a te? Spara alle persone o spara le stupidate contro la maestra di matematica, come fai tu? Lui non ha colpe per gli attentati: se sei suo amico aiutalo a non subire le colpe di chi vuole rovesciare con la violenza un mondo di cui anche lui fa parte.

Sarà un’immagine abusata, ma quando vado a Parigi mi piace camminare nel vento, fermarmi a una boulangerie e prendere qualche pezzo di pane. E camminare nel vento, meglio se da solo, con il mio sacchetto di carta da cui esce calore e profumo. Io Parigi la vedo così, con quella voglia di andare avanti. Anche controvento, anche facendo un po’ di fatica in più di ieri.


L’immagine che svetta in testa a questo post è un disegno originale di Paola Patrizi, che ha dentro tutto. L’immagine ha dentro tutto, non Paola, che ha dentro solo tanto tanto talento.

 

Srebrenica, aku Bogda

  
Io di Srebrenica ho un ricordo personale. Diverso certamente da quello della maggior parte della gente che ha letto, ascoltato, vissuto quegli eventi.

Ai tempi dell’università, un po’ per cercare un senso è un po’ per gioco, mi sono lasciato coinvolgere da amici che facevano volontariato. C’era la guerra nella ex jugoslavia. C’erano i profughi. C’era un’Europa giovane che giocava a fare la grande.

Noi tra un esame e l’altro ci ritagliavamo una settimana di tempo: andavamo in macchina o con qualche camioncino nei campi profughi. Erano in Slovenia e ospitavano, coi soldi europei, la gente che scappava dalle zone di guerra. Erano quasi tutti bosniaci. Di Sarajevo, Gorazde, Gračanica, Bihac, e appunto Srebrenica. Portavamo qualcosa, ma soprattutto portavamo noi stessi. Stavamo con queste persone, parcheggiate li a vedere le loro speranze affievolirsi giorno dopo giorno.

Avevamo imparato la loro lingua. Quelle duecento parole per raccontarsi chi si era e per giocare coi bambini. Per far parlare i vecchi e farci raccontare di come era bello il loro paese. Per dire aku bogda (forse, se Dio vuole) alle donne che cercavano di sperare che fratelli e mariti tornassero.

Ho visto una mamma poi. Una mamma di cui non ricordo il nome. Durante una partita di pallone sul fango ha chiamato Nevzad e gli ha dato una merendina. Nevzad, che avrà avuto sei anni, è corso da suo fratellino Nevzed di sette anni e hanno diviso a metà il piccolo tesoro. Senza che nessuna mamma, volontario o maestro gli dicesse niente. 

La guerra continua e a un certo punto l’ONU dichiara che Srebrenica è un porto franco. Molti tornano nelle loro case. Solo che quando i serbi di Bosnia invadono la città i caschi blu scappano e avviene un massacro. Più di ottomila persone trucidate. Persone che si erano fidate di noi, dell’ONU, della parte civile e pacifica del mondo. 

Nevzed e Nevzad erano di Srebrenica. Non so se hanno fatto in tempo a tornare a casa o qualche caso o qualche dio misericordioso li ha salvati. Sono passati venti anni. Ne avranno quasi trenta oggi. Aku Bogda.

Ti chiedo scusa fratello acaro

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Quando mi hanno dato questo nuovo avveniristico aspirapolvere, io non ho sospettato nulla. Non pensavo che lo avrei usato con questa naturalezza. Non pensavo che mi avrebbe cambiato. Ma andiamo in ordine. È una storia che vale la pena di essere raccontata.

Sono entrato un po’ per caso in una discussione di marketing e di aspirapolveri ai margini di un evento. Discutevano  dei prodotti Dyson. Di come fossero eleganti, efficaci e innovativi. Io, che sono più  allergico agli slogan che alle graminacee, non ho detto niente. Mi limitavo ad ascoltare, nascondendo la mia curiosità. Poi sono entrato nella discussione sul contenuto innovativo e sulla differenza con altri prodotti. Cosa avrà di nuovo un aspirapolvere?

Alla fine mi è stato proposto di provarlo e di raccontare la mia esperienza. Il patto era semplicemente questo: “Noi ti diamo questo nuovo aspirapolvere, tu lo provi, poi scrivi quello che ne pensi”
“Ma davvero posso scrivere tutto quello che ne penso? Anche che non mi piace affatto? Anche che l’ho trovato del tutto identico agli altri?”
“Sì, sì: puoi dire tutto. Basta che lo motivi e soprattutto che usi il tuo stile”
L’offerta mi sembrava invitante e quindi ho accettato.

Quando è arrivato il pacco l’ho aperto con la curiosità di un bambino che scarta una sorpresa, pur sapendo bene cosa si nasconde dentro la carta colorata. La componente tecnologica, il nome del prodotto Dyson DC43H, l’eleganza nerd dello scatolone mi hanno fatto pensare subito agli androidi di Star Wars. Macchine chiacchierone programmate per aiutare noi esseri umani contro l’Impero, insomma. Ma non mi sono fermato lì: era già carico quindi non ho perso tempo per iniziare a usarlo. Francesca quando mi ha visto con un aspirapolvere a forma di mitraglietta mi ha detto: “Che cosa sarebbe questa nuova trovata che ti sei comprato?”
“No, guarda, posso spiegarti tutto!”
A dire la verità, questa frase avevo immaginato di usarla in circostanze ben più drammatiche, ma nella vita bisogna sempre accontentarsi. Ho dato un’occhiata sommaria alle istruzioni (senza leggerle, è una questione di principio!) e sono andato a caccia.

Già dalla confezione questo prodotto si vantava di essere il non plus ultra a per la lotta agli acari. Acari? Non ci ho mai pensato.
Nella mia famiglia non siamo grandi estimatori degli animali domestici: non abbiamo cani, non abbiamo gatti, non abbiamo acquari o canarini: gli unici animali che girano per casa sono esemplari di merluzzo parallelepipedali, opportunamente impanati e stivati nel freezer. Però gli animali ci piacciono eccome: ci piace vederli liberi e pensarli felici nel loro habitat, ci piace cercare di capirli.
A dire il vero l’habitat dell’acaro della polvere è proprio il materasso. Questi minuscoli invertebrati si sono evoluti imparando a nutrirsi di invisibili scaglie di pelle morta che noi esseri umani perdiamo inconsapevolmente.

Preso dalla smania infantile di provare questo nuovo giochino ho iniziato la mia guerra spietata a tutto ciò che poteva essere ingoiato dall’aggeggio. All’inizio è stato facile trovare briciole sul tavolo della colazione e sotto il tavolo stesso, perché quando i miei figli fanno colazione si ricordano di tutti gli animali selvatici che hanno osservato in natura e si comportano più o meno allo stesso modo. Ma dopo pochi minuti di aspirazione, le briciole per terra cominciavano a scarseggiare. Ho cambiato accessorio e sono andato a cercare la polvere nei posti dove di solito la tollero: tra gli elementi di un termosifone, su un battiscopa imboscatissimo, sopra i pensili della cucina. Ma anche lì il gioco è finito presto. Torno a guardare un po’ smarrito l’imballo originale e capisco che l’unico gioco che mi è restato è quello suggerito dallo slogan sul lato corto. Ho innestato l’utensile antiacari con lo stesso sguardo preoccupato con cui il prussiano innestava la baionetta prima dello scontro finale e mi sono diretto verso il letto di battaglia.
Si sa che le guerre sono sempre ingiuste e si sa anche che a soccombere sono sempre le moltitudini di piccoli, quelli senza voce, quelli che non vengono chiamati per nome ma per numero,  così fa meno impressione. Ma secondo una stima prudente, quel giorno potrei avere sterminato un numero vicino ai due milioni di acari. Certo: i soliti negazionisti dicono “al massimo mezzo milione” ma non è comunque un numero che permette di dormire tranquilli.

Quando mi hanno dato questo aspirapolvere io non sospettavo nulla. Ma adesso sono diverso. Più cinico forse, più silenzioso.
Si sa che la storia la scrivono i vincitori e anche questa volta non si faranno eccezioni. Si sa che chi vince poi ha mille e mille spiegazioni razionali per quello che ha fatto: Francesca è allergica alla polvere e adesso sta meglio, il decoro e la pulizia della casa ne hanno tratto giovamento, noi abitavamo qui da prima di loro, noi siamo quelli che difendono la democrazia e la libertà (ok, non c’entra, ma ce la mettono sempre!).

Alla fine ho riposto l’arma nella sua confezione e Francesca mi dice “Hai uno sguardo strano”. Mi sono tolto la fascia dalla fronte e ho accennato un sorriso. Non ho risposto, non ne avevo la forza. Tanto non avrebbe capito.

“Certo che sei strano, tu!”

Succede che una mattina

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Succede che per un po’ di giorni vado a letto troppo tardi, facendomi trasportare da un programma all’altro della TV con indolenza.
Succede che non riesco più ad alzarmi la mattina presto per andare a correre quel poco che avevo programmato.
Succede che questo un po’ mi innervosisce e che cerco di rimediare. Quindi mi impongo di andare a letto presto.

Succede che alle 5:15 sono sveglio, sposto la sveglia (che sarebbe suonata mezz’ora dopo) alle solite 6:45 e vado a correre.
Succede che c’è freddo, ma non tanto. C’è un limpido che si vedono le stelle e il buio buio. Per niente scalfito dal sole. Neanche un po’ neanche alla fine della corsa.
Succede che incrocio un solo corridore lento e sovrappeso come me ma ci sentiamo fratelli, in questo destino di volontaria sofferenza giusta.

Succede che questo mi fa pensare alla bella notizia arrivata la sera prima: la liberazione di Greta e Vanessa. Una gioia senza tante balle, senza tante speculazioni, senza tanto voler mettere aggettivi come sprovvedute, incaute, utopiste o sostantivi come violenza, riscatto, guerra, Stato. Una gioia così, lunga un passo, poi un altro, poi un altro. Senza pensare a niente.
Succede che rientrato in casa preparo la colazione aspettando che si liberi la doccia e twitto un messaggio così, con la stessa gioia istantanea “Ben tornate #GretaeVanessa. Insegnateci ad avere a cuore il destino dei deboli e a non accettare nessuna forma di violenza.”
Succede che Umberto Ambrosoli (con cui avevo scambiato qualche messaggio quando è andata in onda la fiction sulla storia di suo padre) riprende il mio twit.
Succede che scoppia un casino: tutti a riversare malumori e recriminazioni e odio e politica da bar. Mi viene voglia di rispondere di evidenziare, di controbattere. Mi fermo.
Succede che per oggi alzo le spalle e mi tengo la mia gioia per due ragazze che tornano. Le valutazioni le lascio a dopo, forse. Oggi mi godo la leggerezza di questa corsa e di questa bella notizia.
E faccio un altro passo in avanti, poi un altro, poi un altro…

Una storia con due titoli e nessun senso

Vi racconto una fiaba, di cui non so bene il titolo. soldatini
Ci sono dei militari. Anzi no: ci sono degli uomini, che per lavoro fanno i militari. Dalla fiaba non si capisce bene se hanno scelto questo lavoro perché era quello che sognavano da bambini oppure perché poi un lavoro devi averlo e fare il militare è un lavoro dove non ti licenzia nessuno. Al massimo vai in guerra e ti sparano. Ma questa è solo una fiaba e stiamo perdendo il filo.
E’ tempo di pace, quindi i militari non fanno la guerra. Prendono lo stipendio e giocano a fare la guerra. Fanno esercitazioni. Svolgono altri servizi che per descriverli devi usare locuzioni così lunghe che alla fine ti viene in mente che stanno davvero solo giocando a fare la guerra. Per svolgere questi strani incarichi vanno all’estero. In paesi amici. Dove non conta conoscere i campi di battaglia più insidiosi, ma piuttosto i posti buoni dove fermarsi a mangiare.

Ma un brutto giorno uno dei militari, quello superstizioso, si sveglia male. E dice “Lo so che oggi andrà tutto storto”. Lo dice così a voce alta. Tanto gli altri sono abituati a non ascoltare le stupidate dei commilitoni appena alzati. Ma visto che l’autore sono io e che ogni superstizione mi irrita, questo fatto lo lascio così. Senza conseguenze.
Capita che durante quella giornata, alcuni militare fanno una bestialità. Una di quelle concatenazioni di eventi che portano con naturalezza a una tragedia. Per noia o perché comunque un uomo con un arma diventa facilmente un uomo cretino, fanno un grosso errore. Un errore così grande che nessuno, neanche il pigro autore di questa fiaba, riesce a riparare.
Muoiono delle persone. Incolpevoli. Non erano nemici, solo gente che si trovava nel posto sbagliato. Muoiono per mano di questi militari, proprio nel paese amico.

La fiaba scappa di mano. Diplomatici e alti ufficiali si appellano a chissà quali leggi e chissà quali trattati per processare loro stessi i militari.
Il paese che ha avuto vittime dice “Eh no: hanno ucciso qui. Li vogliamo processare qui. Ce lo chiede il nostro popolo!”

Ecco: io su questa storia non ho una opinione. Perché si confrontano opinioni e interpretazioni giuridiche. Che non mi dicono abbastanza. Anzi, questa storia è così sbagliata da avere due titoli. La puoi chiamare “La favola dei Marò” oppure “La fiaba del Cermis“.

Potrei aggiungere la mia opinione, ma non ci farei una grande figura. Sarebbe un’opinione banale, utopistica, imprecisa, impraticabile.
Che suggerisce che le armi mi fanno schifo tutte. Ecco: quasi quasi prendo questa storia con due titoli, appallottolo il foglio e la cestino.