Federica ha occhi grandi pieni di tutto, soprattutto di quel tutto che è ancora da fare.
Viene da una storia finita in modo strano, che a pensarci adesso non sai dire come sia potuta iniziare, ma allora aveva tutto dentro: la magia, lo stupore, il futuro. Una storia così piena da togliere lo spazio persino ai dubbi, persino al fiato.
Federica seduta sul suo letto col telecomando in mano si sente vecchia, dal fondo dei suoi venticinque anni. Pensa alle strade che non ha scelto, ci pensa e si fa male. Sposta di continuo il baricentro della sua attenzione dallo schermo del suo iPhone a quello del televisore. Attenzioni mal riposte, che dopo un minuto già annoiano. Ma i suoi occhi continuano a fare questa altalena, assetati di stimoli.
Che poi Federica è anche una ragazza molto più bella del normale. Ma oggi si sente brutta, si sente culona, si sente come se dovesse lavare i capelli.
Fa caldo e Federica è in mutande e maglietta sul letto e non ha niente da fare. Guarda le foto appese al muro. Una foto sua, che le piace tanto. E’ una foto poco interessante stampata grande. La foto è bruttina, ma lei si sente davvero bella a guardarsi lì. C’è un mare, c’è un sole che sta decidendosi a tramontare, c’è una compagnia di amici (che non compare nella foto, ma si vede dal suo sguardo quanto è presente).
Poi c’è la foto del nonno. Un bianco e nero di una ventina di anni fa. Sono seduti vicini a un tavolo e sorridono senza tempo. Lei con la solita faccia da maestrina sorridente. Lui chinato che non nasconde quanto sia disposto a farle fare di tutto, dal tanto che le vuole bene. Federica ci pensa, al nonno. Pensa alle persone care che non ci sono più. Non è dolore è senso di spreco di tante storie, di tanta bellezza, di tanti sorrisi. Lo immagina in un paradiso fatto di osterie. Suo nonno dietro alle spalle degli altri nonni a brontolare i suoi consigli “E cala al caval!” Federica sorride, le piace questa pazzia di ricordarlo brontolone e quotidiano.
Decide che quello che le manca è un progetto, un progetto importante che non duri il tempo di una vacanza.
Imparare una lingua, fare un corso che duri anni, cambiare qualcosa di importante. Sì, è questo. E’ questo che vorrebbe raccontare al nonno. Mete raggiunte, non occasioni perse.
Federica si mette i pantaloncini più belli, la canotta di polyestere e esce a correre. Le cuffie nelle orecchie con una selezione casuale di musica alta e gli occhiali da sole.
“Nonno, dobbiamo cercare un progetto”
fiducia
Il riccio invece
Devo avere ancora da qualche parte la foto di mia sorella, piccola piccola, con una maglietta blu scuro. Le mani in avanti, infilate in due enormi guanti da lavoro. Teneva in mano un riccio. Eravamo in campeggio vicino a Aquileia. Un campeggio al mare, in agosto, uno senza piazzole, molto bello per noi bambini. Di notte qualche animaletto girava per cercare del cibo. Un riccio veniva spesso a trovarci e alla fine lo abbiamo preso.
Il riccio puzza di selvatico. Se lo prendi in mano si chiude per mostrati gli aculei tutti intorno. Sembra tanto minaccioso all’inizio. Ma poi lo capisci che lo fa per difendersi. La paura la senti quando lo vedi respirare, senti il cuore che batte. E aspetti che si apra, anche se lui, finché lo tieni in mano mica è scemo: resta chiuso. E allora aspetti e piano piano, anche se non fa niente, cambi idea su di lui. È impaurito, non minaccioso. Non punge poi così tanto. E anche la puzza, in fondo, non è insopportabile.
Capisci che dentro è tenero, indifeso forse. Ma vivo. Fuori fa tanto per tenere lontani i rompiscatole ma è bello.
Tu coccoli tanto i tuoi peluche ma vorrei che considerassi il riccio. Il peluche è morbido fuori. È facile, facilissimo. Non ti dice mai di no. Ma dentro ha solo robaccia finta, morta.
Il riccio invece.
Gran premio della montagna
Avevamo biciclette male assortite. Passavamo le estati, tutte, nella terra dove sono nati i nostri nonni e i nostri padri.
Tutto piatto in quella pianura. Un rilievo neanche a pagarlo. La cosa che somigliava di più a un rilievo era l’argine del Po. La nostra grande muraglia che tagliava per il lungo quella piana infinita. Ecco, le salite erano quelle rampe che portavano in cima all’argine.
Guardavamo il tour de france in televisione e sognavamo le cronoscalate.
Poi andavamo a pescare in bici. O a giocare a calcio o a pallavolo nel campo in piazza. O la sera, dopo cena, la granita alla menta, al cedro o al cocco seduti sul muretto. Che schifo il cocco.
Ma ogni volta che tornavamo a casa era una sfida su quella salita.
Catene tirate al massimo e quasi in apnea su, su, su. Con tutta la forza, con tutto il cuore. Ciclismo puro, di altri tempi, come il ciclismo forse non è mai stato. Ma non importa: su, su, su.
E chi riusciva a battere l’altro aveva il diritto di esultare gridando “Gran premio della montagnaaa” in cima.
Adesso Marino si sposa. Adesso, nel senso di adesso: proprio quando questo pezzo va online.
Vorrei scrivere un bel discorso per il suo matrimonio. Vorrei che tutti si fermassero per ascoltarmi. Vorrei fare una figura da figo tipo in quattro matrimoni e un funerale.
È un po’ che penso cosa scrivere e penso che poi non avrei il coraggio di alzarmi in piedi con un calice e una posata per richiamare l’attenzione.
Ma gli direi di metterci, in questo matrimonio, tutta l’energia che metteva in quella salita.
Il matrimonio è sudore, è coraggio, è cuore.
È anche catene tirate che non si capisce come non siano già saltate. Ma poi ti accorgi che quella tensione si trasforma in velocità ed è una gioia.
Il matrimonio non è una meta. È un posto dove arrivare e dove ritornare, come quelle salite. E ogni giorno è un traguardo di tappa, che non vale se oggi non ho voglia e non corro.
Il matrimonio è un ciclismo antico. Non cercate aiutini, non cercate bibitoni, non ne avete bisogno. Cercate il ritmo giusto, da passisti.
Il matrimonio è fatica e milza.
Brindo a Carla, brindo a Marino. E soprattutto brindo al gran premio della montagna!
E metteteci forza su quei pedali! Su!
Portami dove non si tocca
Dopo tornanti e sole e riflesso dell’acqua e delle rocce alla fine qualcuno ha avuto l’idea: “Perché non troviamo un posto dove fermarci e ci facciamo un bagno in mare?”
Io non sapevo nuotare, ma non ho detto niente. Quell’estate stavo imparando a scendere a patti con la mia rigidità e con quella benedetta ansia di velocità e precisione che avevo già dentro senza avere ancora l’età della rassegnazione. E su quelle strade piene di autovelox e di poliziotti a caccia di targhe straniere, era un bagaglio pesante. I limiti di velocità cambiavano a ogni comune con una logica che non abbiamo mai capito. Ti sentivi in gabbia, ti sentivi in difetto, sentivi di sprecare qualcosa. Poi piano piano il piede destro ha imparato ad alzarsi, i finestrini ad abbassarsi e l’ansia è uscita dal finestrino e si è dissolta in cento vortici invisibili. Solo allora siamo riusciti a sentire quell’odore di erba al sole e di polvere e di tranquillità fatta di niente. Un odore che in città mica riesci a sentire.
Eravamo tutti d’accordo per una sosta al mare e ci siamo fermati. Quando la macchina è passata dall’asfalto alla ghiaia io non ho detto ancora niente. Ero sospeso tra il ricordo della mia inettitudine in acqua e quel nuovo volermi mettere alla prova. Volevo testare la mia apertura al nuovo, all’ignoto.
Nelle chiacchiere di quel conoscersi lei mi aveva raccontato che l’acqua era il suo elemento. E quelle spalle dritte e quel collo elegante confermavano questa storia. Io avevo raccontato dei miei patetici corsi di nuoto da bambino e non mi sembrava il caso di ribadirli.
Sono andati tutti in acqua. Nuotando verso chissà dove. Loro davanti, veloci, fluidi.
È stato lì che ho deciso che dovevo farlo. Dovevo provare, non importa come, non importa cosa. Ho cominciato a camminare in quell’acqua più fredda di quanto immaginavo da fuori. Poche onde, sabbia grossa e ghiaia sul fondo. Continuavo a fare passi in avanti aspettando che l’acqua mi rendesse più leggero, cercando il momento in cui mi avrebbe sollevato.
Arrivo vicino al limite e ci provo a nuotare, non importa verso dove. Ci sono poche onde ma per me sono alte: mi scompongono, mi passano sopra, mi fanno perdere il filo. Avanti, avanti ancora, ancora un po’.
Bevo, dalla bocca, dal naso. Cerco di non perdere il coraggio. Mi concentro pensando che quando corro di fiato ne ho molto e allora perché non dovrei adesso, perché dovrei andare in affanno? Per un attimo penso all’abisso freddo sotto di me e sento che questo assaggio di panico potrebbe tirarmi giù. Cerco di recuperare e sento che se riuscissi a tenere la bocca ben fuori dalla superficie avrei il fiatone. Ho paura. Capisco che sono in apnea, che non dura. Mi metto a cagnolino e non cerco il fondo in basso per paura di avere la conferma della profondità. Cosa sto facendo, cosa sto facendo?
Di colpo sento un braccio che mi prende il collo, mi spavento, mi sento tirare indietro. Un braccio che l’acqua rende liscio come una passeggiata in bicicletta. Cerco di concentrarmi sul fatto che mi stanno salvando, che devo fidarmi, che devo lasciarmi andare. Mi attacco con tutta la fiducia al braccio, sento che è il tuo, sento la pelle liscia.
Vorrei dirti che mi fido. Vorrei dirti “Portami dove non si tocca” ma finalmente riesco a respirare. Mi fido, respiro, mi fido.
“Ma che cazzo pensavi di fare?”
Non rispondo, respiro.
Questo è un racconto scritto per GallizioLab
Rimedi naturali truffaldini
Chiara è da un paio di settimane che lamenta un mal di pancia di cui non capiamo le cause. All’inizio di siamo un po’ preoccupati e l’abbiamo portata dalla pediatra, che l’ha visitata e non ha trovato niente.
Abbiamo notato che questo mal di pancia le viene sempre nei momenti di stress. Con tutto il peso relativo che la parola stress può assumere a nove anni. Quindi abbiamo pensato che potrebbe essere una palla, certo. Chiara è l’unico homo sapiens capace di piangere a comando. No, non per finta: coi lacrimoni e i singhiozzoni. Una cosa che in confronto Stanislavskji deve prendere lezioni di recitazione da Lory Del Santo. Ma Chiara ha questo talento e quindi non so mai se darle della pallista o la nomination per l’Oscar.
Potrebbe essere un disagio pricologico. Si trova davanti a un ostacolo e somatizza un dolore che sente davvero. Una specie di fastidio vero, ma autoindotto.
Quando si trova davanti a un piatto di pesce, la piccola sindacalista, ha preso a imbarcarsi in infinite rivendicazioni e discussioni e piattaforme di intesa e piani di incentivo e scioperi ad oltranza. Ma quando la controparte non cede, gioca la carta del “devo andare in bagno”.
“Vai, ma quando torni mangi”. Poi succede che in bagno ci sta un’ora a ripassare il contratto collettivo nazionale dei bambini di fronte al pesce. Quando torna è tutto freddo ed è diventato cattivo davvero. Una volta sedati i suoi “Vedi? Dicevo che non è buono!” va sempre a finire che ottiene uno sconto, nasconde qualche pezzo sotto una foglia di insalata e cambia discorso.
Di recente Houdini con i codini non usa più la tazza ma la pancia.
La pediatra continua a dire che è tutto a posto e non ne usciamo.
Oggi Francesca mi ha dato un’apertura insperata. “E se provassimo con un placebo?”
“Francesca: in farmacia non vendono i placebo (tranne le tue minchiate omeopatiche)”
Evidentemente la parte tra parentesi non l’ho pronunciata abbastanza piano ed è nato un simposio dal titolo “Omeopatia e il corretto uso del termine minchiate”. Alla fine abbiamo deciso di lavare un vecchio contagocce e di provare con acqua e zucchero.
Certo, con acqua e zucchero ci avrebbe scoperti subito. Serve qualcosa di organoletticamente credibile. E questa è la parte che mi piace.
Ricordandomi che da piccolo volevo fare l’alchimista, mi sono messo in cucina e ho mescolato sapientemente: una base di tisana alla frutta per dare un colorito rossastro. Ma visto che era poco rosso allora ho aggiunto un dito di Amaro Braulio, che ci sta sempre bene. Il sapore era quasi perfetto, mancava un po’ di puzza di medicina. Mi giro e vedo l’acqua di cottura dei cavolini di Bruxelles. Adesso non mi resta che stampare un’etichetta con la dicitura “Non testato su nessun altro essere vivente” e provare.
La leggerezza della libellula
Era una mattina di fine agosto, una delle ultime calde, quando alla portineria della facoltà di fisica un usciere in divisa blu si sporse di due passi dalla guardiola per indicare col dito la strada a Nicola.
Nicola si sentiva sicuro, capace, preparato. Lo si vedeva subito, aveva gli occhi freschi.
Seguendo il percorso disegnato nell’aria dal dito del custode, trovò quasi subito l’aula con il cartello “Test di ammissione facoltà di FISICA”. Prese posto, si tolse le due penne a sfera dalla tasca, si sgranchì il collo e si sedette. Aspettando.
Svolse con grande tranquillità la prima parte a risposte multiple. Cultura generale, matematica, fisica, logica.
L’ultimo quesito chiedeva come mai “…la libellula che si appoggia sullo stagno non affonda”.
Rispose in modo preciso e sintetico, accennando alla legge fisica per cui la forza esercitata dalla tensione superficiale era sufficiente a sostenere il peso dell’insetto.
Rigore, padronanza, semplicità. Questo pensò il professor Caldini, a cui capitò di correggere il test.
La carriera di studente fu veloce e piena di soddisfazioni. Cominciò a discutere coi professori che riconobbero in lui un futuro fisico davvero promettente.
Iniziò a lavorare a studio al di fuori dal curriculum di studi. Pendendo spunto da idee balenate a lezione e che secondo Nicola meritavano di essere approfondite. Le riviste del settore lo pubblicarono con crescente attenzione. Finirono presto a cercarlo a proporgli collaborazioni.
Quando si laureò a pieni voti, i professori lo trattavano già come un loro pari.
E’ oggi quel giorno. E Nicola si alza senza ansia, si prepara. I suoi genitori sono arrivati da lontano e hanno dormito da lui. Nicola ha la casella della posta piena di proposte. Univerità, centri di ricerca, aziende e fondazioni private.
Dopo la laurea affrontano il brindisi di rito, con professori, qualche amico e i genitori.
Il settantenne professor Caldini, indicato da più di venti anni tra i probabili futuri premi Nobel, lo ha seguito dall’inizio della sua carriera di studi. Adesso, salutati i genitori e riappoggiati i calici sul bancone del bar universitario, gli chiede di fare due passi.
Camminano parlando, lasciando scegliere il percorso ai loro piedi. Si inoltrano nel giardino in stile giapponese dell’ateneo. La stradina di ghiaia bianca, il prato curato, il ponticello di legno scuro, il corso d’acqua quasi ferma che si apre sullo stagno coperto per buona parte da ninfee.
“Caro il mio dottore, adesso c’è l’esame più difficile”
Nicola si volta, aspettandosi una frase scontata sulla vita.
“Devi fare come la libellula”
“Come la libellula?”– chiede sospendendo l’incredulità in un sorriso – “Il mio peso non mi tiene, la tensione superficiale, l’attrazione di gravità, massa, peso specifico corpo umano…” Pensa che sia un gioco e risponde quasi meccanicamente.
Il professore invece non sente le obiezioni e continua: “Adesso devi superare l’esame più difficile. Riuscire a non darti troppo peso, a concederti leggerezza. Solo così sarai un uomo completo. E un fisico, può anche vincere tre premi Nobel, ma se oltre a essere intitivo e intelligente non ha il coraggio di vivere, non sarebbe niente. Nicola: lei deve trovare la sua leggerezza e imparare a essere un uomo completo. Non importano massa, peso, tensione superficiale. Fuori dal laboratorio non importano le formule. Adesso lei deve imparare a farsi libellula: leggera e irrazionale. Deve fidarsi del prossimo passo. Senza ponderare l’appoggio, il peso e tutto quanto ha in mente ora. Un fisico non è niente se prima non è un uomo completo”
Nicola sorride, non ha capito. Preferisce pensare che il vecchio professor Caldini abbia bevuto un bicchiere di spumante di troppo.
Si salutano con cortesia e Nicola se ne va, perplesso.
Incanalato nel suo destino fisico di successo, di probabile Premio Nobel e di uomo incompleto.
Basta crederci
Doveva essere una specie di santo o di profeta. Forse un mistico o magari solo un imbonitore. Però come sapeva parlare quel Giulio! Sapeva trovare le parole giuste ed essere credibile. Assolutamente credibile. E se adesso diciamo assolutamente come se fosse una delle gradazioni superlative di tanto, ti invito a pensare con attenzione al significato di questo avverbio. Pronunciandolo con studiata lentezza. Assolutamente. Più piano ancora. As-so-lu-ta-men-te.
Ci siamo alzati molto presto quella mattina. “Ti devo mostrare” diceva nel suo italiano diverso dal mio “che è possibile. Basta crederci”.
Siamo arrivati in fretta alla curva della strada principale. Sorprendentemente circondata dalla natura, ché non credevo avrei potuto trovarne uno così vicino. Subito dopo l’ansa c’era uno spiazzo e parcheggiammo lì, come quelli che vanno a cercare funghi o a caccia.
Non c’era nessuno in giro. Seguimmo quell’abbozzo di montagna facile, assecondando le sue pendenze. Presto arrivammo in una specie di canalone, scavato da un torrente che, per la poca acqua che portava, doveva averci messo millenni a formare quella gola.
Il vapore dei primi raggi di sole si alzava da quelle erbe a foglia larga. “Ecco: fai come me” mi disse calmo. Seguendo con fiducia i suoi gesti cominciai anche io a camminare in avanti. Usando quella foschia come una passerella. Passo dopo passo. Leggeri, sospesi, convinti. Procedevamo in avanti verso il ciglio di fronte. Sospesi su quella gola. Sospesi.
“Vedi?” mi diceva “Non è difficile: basta un po’ di convinzione. Basta avere fiducia. Basta crederci”. E camminavamo in avanti senza tentennamenti, senza dubbi.
Non so dire quanti passi avevamo già percorso. So descrivere il senso di pienezza e di serenità. E ricordo con precisione i pensieri pieni e il senso di rilassatezza che mi prendeva fronte e tempie. Poche parole con Giulio e pensavo a quanto fosse facile e quanto potesse essere rivoluzionario quel modo di procedere, di passare ogni abisso, ogni baratro. Niente più bisogno di ponti, niente più fratture separazioni. Ah se fossimo capaci di insegnarlo a tutti, quanto potrebbe migliorare la vita in molti angoli della terra.
Ma se poi non ci credessero? Seguendo questa catena di pensieri mi misi a cercare le parole giuste, a ripercorrere quella scoperta cercando di spiegarla a chi ancora non conosceva quel prodigio. Mi sentii incapace, inadeguato. Sperso. Sentivo che mancava una logica solida sotto quella realtà. E cominciai a temere di cadere. Dubitavo.
Nonostante il salto non fosse enorme, cadere su quel fondo così irregolare non fu indolore. Concentrato su quei traumi pulsanti, vidi appena Giulio che camminava con la stessa lentezza. Senza voltarsi forse. E quella fu l’ultima immagine che mi resta di lui.
Raccontai che ero caduto nel torrente andando a cercare funghi. E dimenticai questa storia.
irrita
Quello che scrivo non ha niente di vergognoso. Nessuna rivelazione. Neanche l’ombra di qualcosa di scabroso. Nulla di morboso. Niente.
A volte ci metto ricordi, che mi spiace vedere svanire e che avrei voglia di raccontare ancora (chissà quando, chissà a chi). A volte ci metto situazioni quotidiane, momenti, istanti. A volte addirittura racconti del tutto campati in aria. Per descrivere anche una sensazione, costruendoci attorno personaggi e movimenti inesistenti.
Non ho mai avuto particolari paturnie per la riservatezza. Conosco internet abbastanza da capire che se pubblico qualcosa, poi non posso frignare se viene letto. Questo sito è facilmente raggiungibile con una ricerca per nome e cognome.
Ma quando ho saputo che queste poche righe estemporanee sono diventate un argomento di conversazione in ufficio, questa cosa mi ha irritato.
Non capisco come una cosa così poco attraente, trasparente, non nascosta, non segreta, sia potuta diventare un pettegolezzo sgonfio.
Mi irrita che risposte date con molta tranquillità a domande precise “Sì ero io, sì l’ho scritto io” siano diventati un chiavistello per congetture sbagliate. E la cosa che non accetto è che questo pettegolezzo pigro riesca a mettermi di cattivo umore.
Non è una fiducia tradita, non è una password violata, un segreto svelato. Non è niente.
Solo che irrìta.
La rincorsa
Una storia lunga un attimo. Una storia vera di una sensazione. Una storia nata nel pomeriggio in campagna, tante olimpiadi fa.
Nelle ore più calde guardavamo le olimpiadi, non ricordo da quale fuso orario trasmettessero, ho ricordi in differita.
Ma ricordo la voglia di emulare la gloria di quei campioni. Rapiti più o meno consapevolmente dalla bellezza dello sguardo di chi ha vinto e alza gli occhi dal tartan della pista. Quando finalmente ha tempo per rendersi finalmente conto delle persone attorno. E’ lì. Applaude. Un sorriso pieno di incredulità.
Quindi noi bambini ci abbiamo messo poco a organizzare le nostre olimpiadi.
Non c’erano piste di atletica, ma un argine del Po. Ma poi nessuno voleva fare corse più lunghe di qualche centinaio di metri. E poi si sapeva già che vincevano i più grandi e non c’è gusto.
Ci siamo concentrati sui salti. Sull’aia di cemento c’era sempre qualche mucchio di sabbia di fiume, lavori edili in economia.
Il salto il lungo era quindi la cosa più facile da preparare. Più del salto in alto, che poi è un casino saltare all’indietro e non hai mai niente di decentemente morbido su cui cadere.
Ma la sabbia è spianata. Tiriamo una riga arancione con una pietra, ad indicare il limite tra rincorsa e salto.
Tocca a me. Prendo la rincorsa. Ma non ho tecnica. Parto. Non ho in mente come atterrerò. Negli occhi ho i Carl Lewis, che sembrano scivolare in silenzio nell’aria. Orizzontali, lunghissimi. Braccia e gambe in avanti. No, ma io…
Sento la disperazione di un attimo. La rincorsa è partita ma capisco di non avere calcolato tutto. Il passo non è più una sequenza ritmica regolare. Capisco che il salto non lo farò, che non sta andando come credevo. Non so se fermarmi, come fermarmi. Non so se accelerare, forzare.
Davvero brutta questa sensazione di mancato controllo. Tanto che ancora la ricordo.
Va a cagare le olimpiadi, prendiamo il pallone. Chi fa le squadre?