amicizia

Nuova richiesta

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Se potessi prendere un centesimo ogni volta che qualcuno, al mondo, pronuncia un a determinata frase, non avrei tanti dubbi. Sceglierei la frase “in fondo non ci si conosce mai davvero”.
Un po’ perché c’è sempre qualcuno che, dai e dai,  se ne rende conto. Un po’ perché l’ho detta e pensata anche io. Ma abbandonando per un attimo i miei propositi di guadagni facili, oggi c’è una cosa che prima non c’era. La facilità di conoscersi.
Con questi nuovi strumenti siamo tutti più vicini. Nel bene e nel male. Siamo interconnessi, siamo attaccati, vicini sempre. Non dobbiamo più aspettare la metà del pomeriggio per andarci a sedere sul muretto dove forse arriva quella, dove forse passa quello, dove di solito si trovano quelli.

Quando mi arriva una richiesta di amicizia (locuzione irritante, ma che ormai è stata sdoganata) io la guardo come una sorpresa.
Da piccolo, a casa di mia nonna, c’erano scatole in cima agli armadi (o nei cassettoni dei comò) pieni di oggetti poco ingombranti e fondamentalmente inutili. Per me erano un tesoro. Probabilmente erano appartenuti a qualche vecchia zia morta da tempo o a chissà chi. Per me era una meraviglia continua. Bottoni, pezzi di ingranaggi, monete con i profili di re che han perso il referendum con la storia, sostegni di zampironi, santini ingialliti, sfere di cuscinetti, segnalibri, rosari, pennini senza più penne. Io poi non prendevo niente, ma guardare in quelle scatole era una gioia. Sembrava di poter leggere quelle vite lontane.Era un po’ curiosare un po’ scoprire.

Provo un po’ la stessa sensazione quando mi arriva una richiesta di contatto nei social network da uno sconosciuto. Guardo e cerco di farmi un’idea. Guardo quello che scrive, da dove viene, le foto che ha messo. Annuso ciercospetto. Un violoncello, il pane coi semi di papavero, una foto brutta di un bellissimo pupazzo di neve che ha per occhi delle bacche stellate, un papà coi mocassini chinato di fianco a una bimba coi capelli tagliati in casa, una pila ardita di sassi in equilibrio, libri chiusi, libri aperti, librerie, scarpe buttate in un angolo dopo una corsa, raggi di ruote di biciclette da usare di sabato, Clarks’, un piede che punta il soffitto avvolto in calzini a righe, posti che a qualcuno devono aver detto qualcosa.
Poi richiudo la scatola e non prendo niente, ma mi piace questa sensazione.

La qualità del processo

camerasterile

Le prime volte che sono entrato nella camera sterile, Alba era già lì.
Il capo degli ingegneri ci catechizzava con zelo. La multinazionale ha protocolli molto precisi per quanto riguarda la contaminazione dei componenti da assemblare. Non deve entrare un granello di polvere. Servono mascherine, sovrascarpe, camici, cuffie. I vostri umori non devono entrare in contatto col prodotto. Ne va della qualità del processo!

Alba scherza tanto. Quando c’è lei di turno, al lavoro, tutti sono contenti di esserci. Prende dall’armadietto quello che le serve, le solite cose, sempre quelle. Ciabatte di gomma, camice, cuffia, strafottenza chiassosa. Il cuore no, quello lo porta da casa, fregandosene dei regolamenti e della camera sterile. Quegli occhialetti senza troppa montatura in fondo le somigliano pure: fanno vedere il suo viso dietro uno schermo, ma è uno schermo piccolo, che fa finta di non esserci. Perché Alba ha un talento speciale nell’abitare la camera sterile. Lei sa come lasciare fuori ogni granello di polvere.
Non è arrivata molto prima di me, ma per me e per gli altri è sempre stata una guida. Non solo sul modo di comportarsi nella stanza di decontaminazione. Non solo sul modo di comandare le macchine e gestire i capi. Sì perché Alba ha sempre avuto una parola giusta per tutti.
Sì, giusta. Non una parola buona, o una parola cattiva o una parola brillante. Proprio una parola giusta.
Ricordo ancora quando mi ha aspettato sulla porta dello spogliatoio maschile, un piede dentro e un piede fuori a dire “muoviti, sei più lungo di una donna che si sente brutta”. Vedeva che c’era qualcosa che non andava e mi ha preso sotto braccio. Un po’ confidente un po’ sergente, e mi ha detto come la vedeva lei. Non ricordo quanto fossero centrate le sue parole. Ricordo che mi è stato vitale vedere che in quell’ambiente non ero il numero riportato sul badge.

Adesso la vedo io. Vedo una tristezza dentro di lei. Profonda come la voce dopo certe nottate sbagliate. Non ho argomenti, non ho elementi. Solo un antica gratitudine, solo una percezione di profonda tristezza.
L’aspetto alla fine del turno. L’aspetto fuori dal suo spogliatoio, seduto. Tutti e due i piedi fuori, certo, perché io non sono mica come lei.
La prendo per braccio e le dico “andiamo a parlare, andiamo via da qui”.

La multinazionale ha protocolli molto precisi per quanto riguarda la contaminazione dei componenti da assemblare. La multinazionale non ammette che gli umori contaminino i processi.

La moneta da cinque zecchini

zecchini

 

“Non serve mica avere tanti zecchini per essere gentiluomini”. Questo ripeteva spesso, quando era in vita, Messer Baldonazzo, padre di Bernardo de’ Baldonazzi. Anche nella famiglia di Sismondo dei Pancaldi veniva espresso, con altre parole ma con sguardi simili, lo stesso concetto. I giovinotti Bernardo e Sismondo crebbero entrambi lontani dal lusso, ma grazie al cielo anche lontani dalla fame più nera e vicini a insegnamenti pregni di buon senso.
Erano quasi adulti quando si conobbero e cominciarono a frequentarsi e a incrociare i loro affari. Una indefinibile affinità li portò a sentirsi simili e a fidarsi l’uno dell’altro. Ancora a bottega dai rispettivi padri, andavano come mercanti nelle piazze dei borghi vicini.

Quel sabato di fiera, a Sismondo capitò un buon affare. Si trattava di comperare uno stallone che valeva certamente molto più del prezzo che gli altri erano disposti a pagare. Un ottimo ritorno con pochi rischi, se solo si avessero avuti nella saccoccia tutti gli zecchini richiesti. Ma non era il giorno giusto e Sismondo aveva impegnato in altre adoperazioni tutte le monete a sua disposizione. Vedendolo in queste tribolazioni Bernardo si offrì di aiutarlo. “Mi fido della tua parola. Ti posso dare oggi la moneta da 5 zecchini che ti manca per il tuo affare. Me la renderai entro la Pentecoste”.
Sismondo si illuminò due volte: per vedere di nuovo tornare possibile il buon affare che pensava ormai sfuggito. E per il gesto di quel coetaneo che non aveva mai avuto l’occasione di chiamare amico.

Va però detto che la moneta da cinque zecchini era d’argento, mentre era d’oro quella da dieci. Ma quell’estate una improvvisa guerra in Dalmazia portò a una chiusura quasi totale dell’estrazione e del commercio dell’argento. Di lì a poco anche il re si vide costretto a mettere fuori corso la moneta da cinque zecchini.
Sismondo, che era uomo di principio, decise di restituire lo stesso il debito. Ma non avendo più nessuna moneta da cinque zecchini tra le mani, non potè fare altro che restituire la moneta da dieci zecchini.

Questo portò un leggero smarrimento in Bernardo che da creditore, passò di colpo ad essere debitore. Fece passare qualche giorno, in cui invero dormì poco e male, e decise di restituire a sua volta la somma di dieci zecchini.
Non era una rivalsa, non una vendetta. Non era neanche la volontà di puntualizzare. Era un limpido senso di gratitudine accompagnato dalla fiducia nel proprio interlocutore. Era una amicizia discreta che cresceva in dare e in avere. Che cresceva rinunciando intrinsecamente all’idea di saldo e di pareggio.
Passavano gli anni e questo avere e dare era diventata una consuetudine affettuosa. Ormai nessuno dei due aveva realmente bisogno di una moneta da dieci zecchini. Tantomeno da quella ormai introvabile da cinque.
Dopo molti decenni finalmente il mercato dell’argento riprese una certa vitalità e il nuovo sovrano decise di riprendere l’uso della moneta d’argento da cinque zecchini.
Ma nessuno dei due uomini aveva ormai interesse a estinguere l’antico debito. E continuarono, fino alla fine, a credere in un’amicizia fatta di fiducia e di disponibilità a dare ogni volta un po’ di più di quello che si riceve.

Cellulosa gentile

cellulosa

Anche tralasciando la deriva cacofonica, sono davvero strani i differenti destini che aspettano ogni singola cellula di cellulosa.

A volte la cellula nasce come parte di un filo d’erba. E dura il tempo di una stagione.

Altre volte nasce albero e finisce per restare imprigionata decenni nello stesso posto. Poi l’albero cade nel bosco e ogni sua molecola torna a liberare sulla terra i suoi componenti. Oppure no, viene tagliato dal boscaiolo. Allora l’albero diventa trave di una chiesetta e la cellulosa guarda per due secoli i fedeli che cercando un dio col naso all’insù.
Oppure diventa cassetta per la frutta. Assemblata, spedita, accatastata, riempita, consegnata, smaltita.
O può diventare legna da ardere. Il calore aumenta e con gioia la molecola viene divorata in un calore ipnotico di un caminetto.

Altre volte la cellulosa diventa pasta di carta e finisce in imballaggi, quotidiani, libri o quaderni.

Non so cosa pensino di preciso le singole particelle di cellulosa di questa riflessione. Ma so per certo che alcune di loro possono essere molto fiere del loro ruolo.
Alcune di loro sono diventate carta di block notes, su cui ho scritto una lettera anni fa, dal mezzo di una vacanza. A una lei che tornava in autobus, mentre il mio tempo continuava. Una nuova amica che non era una conquista. Era una amica destinata a restare amica a lungo. E quei sorrisini sono fuori luogo, davvero. Una sintonia fatta di stupidità e ragione, di divertimento e impegno, di sorrisi e rutti.
Non c’era innamoramento, no. E quello non è arrivato neanche dopo. Ma c’era una lettera che parlava di questa amicizia nuova.

Quelle particelle di cellulosa hanno resistito agli anni e alla noia, finendo in fondo a una scatola di scarpe. E poi, d’improvviso hanno rivisto la luce e hanno riportato a lei i ricordi e il calore di quell’agosto.
Tanto che ha sentito la voglia di mandarmene una foto, di quelle parole.

Ecco: io sono grato a quella cellulosa che è stata così delicata nei miei confronti per tutto questo tempo.