Se potessi prendere un centesimo ogni volta che qualcuno, al mondo, pronuncia un a determinata frase, non avrei tanti dubbi. Sceglierei la frase “in fondo non ci si conosce mai davvero”.
Un po’ perché c’è sempre qualcuno che, dai e dai, se ne rende conto. Un po’ perché l’ho detta e pensata anche io. Ma abbandonando per un attimo i miei propositi di guadagni facili, oggi c’è una cosa che prima non c’era. La facilità di conoscersi.
Con questi nuovi strumenti siamo tutti più vicini. Nel bene e nel male. Siamo interconnessi, siamo attaccati, vicini sempre. Non dobbiamo più aspettare la metà del pomeriggio per andarci a sedere sul muretto dove forse arriva quella, dove forse passa quello, dove di solito si trovano quelli.
Quando mi arriva una richiesta di amicizia (locuzione irritante, ma che ormai è stata sdoganata) io la guardo come una sorpresa.
Da piccolo, a casa di mia nonna, c’erano scatole in cima agli armadi (o nei cassettoni dei comò) pieni di oggetti poco ingombranti e fondamentalmente inutili. Per me erano un tesoro. Probabilmente erano appartenuti a qualche vecchia zia morta da tempo o a chissà chi. Per me era una meraviglia continua. Bottoni, pezzi di ingranaggi, monete con i profili di re che han perso il referendum con la storia, sostegni di zampironi, santini ingialliti, sfere di cuscinetti, segnalibri, rosari, pennini senza più penne. Io poi non prendevo niente, ma guardare in quelle scatole era una gioia. Sembrava di poter leggere quelle vite lontane.Era un po’ curiosare un po’ scoprire.
Provo un po’ la stessa sensazione quando mi arriva una richiesta di contatto nei social network da uno sconosciuto. Guardo e cerco di farmi un’idea. Guardo quello che scrive, da dove viene, le foto che ha messo. Annuso ciercospetto. Un violoncello, il pane coi semi di papavero, una foto brutta di un bellissimo pupazzo di neve che ha per occhi delle bacche stellate, un papà coi mocassini chinato di fianco a una bimba coi capelli tagliati in casa, una pila ardita di sassi in equilibrio, libri chiusi, libri aperti, librerie, scarpe buttate in un angolo dopo una corsa, raggi di ruote di biciclette da usare di sabato, Clarks’, un piede che punta il soffitto avvolto in calzini a righe, posti che a qualcuno devono aver detto qualcosa.
Poi richiudo la scatola e non prendo niente, ma mi piace questa sensazione.