piscina

scivolando piano

fluido

Gianluca aveva vinto quasi del tutto quel senso di disagio che provava nella sfilata obbligatoria da spogliatoio, doccia e vasca.

Aveva pensieri che somigliavano a una lettera per la quale non serviva affrancatura o codice di avviamento postale.

Pensava a mente alta: “Chi lo avrebbe detto che mi sarei trovato ancora in una piscina, io che con l’acqua ho un rapporto così difficile. Non mi sono tuffato dal bordo, come quando c’eri tu. Mi sono seduto, i piedi dentro, a cercare sul fondo il mio coraggio.
Qui mi sa che tocco persino, ma il mio pensiero è un altro. Penso a quando c’eri tu, che era un miracolo vederti scivolare sul fondo, quando davi prova di acquaticità. Ti davi una spinta forte sul bordo e andavi in apnea a poche spanne dal fondo e ogni movimento sembrava la cosa più facile. Andavi così, fino al muro in fondo. Scivolavi piano.
Io cercavo di seguirti, di imitarti, di plasmarmi. Ma quell’acqua per me aveva un sapore diverso. Palato naso bronchi muscoli tesi. Poi piano piano ci siamo allontanati, ognuno per dar retta ai propri egoismi, ai piccoli capricci di cui ci prendiamo il lusso. Sono aumentate le pause tra una parola e l’altra. Ripensamenti silenzi. Distanze che si allargano, messaggeri sempre più affanati tra gli avamposti dei nostri sogni. E sei andata via, scivolata piano.”

“Che fai non ti butti? Aspetti che si riscaldi?” L’istruttore in ciabatte ripesca Gianluca dalla sua missiva.

Gianluca allora si decide, pianta i palmi a fianco del sedere, sposta il peso del corpo in avanti e si cala piano. Fa entrare l’acqua negli occhialini per togliere vapore e ultime remore e piega le gambe per immergersi. Cerca una posizione il più possibile idrodinamica e si spinge con tutto l’amore che ha. Piante dei piedi contro il muro a piastrelline, contro le distanze, contro il passato.

“Eccomi, ti raggiungo, non so come ma scivolo piano verso di te. In apnea scivolo piano. Piano”

Non di mimosa

Stamattina alle sei piscina autobus di lineacorrevo e ho visto due giovani donne in tuta da ginnastica ultra-tecnica iper-firmata che si sono fermate a depredare una pianta di mimosa. Ah, già: è l’8 marzo. Ho sempre trovato triste questo contentino. E ho pensato a scrivere qualcosa per il mio blog. Su qualche donna e qualche impresa che valesse la pena ricordare. Trasvolate, traversate, conquiste. Poi mi è venuta in mente un’altra impresa che sugli almanacchi non è riportata.

Mi è venuto in mente qualche immagine, fine anni ’70, quando mia mamma ha cercato di portarmi in piscina. Alla piscina GEAS di Sesto. Ricordo solo alcuni particolari, ma sono più che sufficienti per delineare l’eroismo di quel gesto materno.
Ricordo l’odore forte di cloro, il fastidio dell’umidità e il prurito dell’acqua nel naso. Ricordo quanto rompevo le scatole coi miei “Non ci voglio più andare”. Io che da buon primogenito remissivo, di capricci non ne ho mai fatti troppi. Ma la memoria spesso è indulgente sui noi stessi. Ricordo la paura dell’acqua. Un blocco che neanche la tavoletta gonfiabile (nera da un lato e gialla dall’altro) riuscivano a sciogliere.
Il mio rapporto con l’acqua è sempre stato problematico. Un elemento che mi piace, ma verso cui ho una incredibile rigidità. Mi avevano iscritto per un problema di scapole alate. Che era una cosa che andava di moda allora. Il pediatra aveva consigliato di farmi fare nuoto. Anche se a me questa cosa di avere le ali dietro la schiena non è che mi dispiacesse poi tanto.
Dovevo essere in terza o quarta elementare. Mia mamma portava me, dopo essere passata a prendere mia sorella all’asilo. Naturalmente portando anche mio fratello (di mezzo) per mano. Non so con che mano tenesse la borsa della piscina. Ma so che questa comitiva di ribelli si spostava in autobus. Con “la [linea] C”, che adesso ha un altro nome, ma allora era solo “la C”. Ché quando dicevi “devo prendere la C” tutti ti capivano. Eh già, perché allora mica era tanto normale avere più di un’automobile per famiglia.
Mi ricordo l’autobus arancione e il buio invernale fuori. E i miei capricci. E uscire con la testa ancora bagnata, perché non ho mai sopportato i fon.
Penso che dopo tre mesi si sia rassegnata ai miei capricci e, con inconfessabile sollievo, ha deciso di non rinnovare altri tre mesi di supplizio alla piscina GEAS.

Penso alla fatica di quei tempi. Organizzare, fare tutto. Orari, responsabilità e fatica fisica.
E penso che per colpa del pudore che lei mi ha insegnato, io paradossalmente non ho mai imparato a dirle che le voglio bene. A dirle quanto lo apprezzi. Adesso che sono io che porto in piscina i bambini. La storia della piscina è un episodio inutile, passeggero, che non dice niente del resto. Ma che mi riporta alla mente tutto l’amore che ho ricevuto. Vorrei saperlo dire, anche tardi, anche adesso.

Con la testa faccio un salto. Stasera a Francesca non porterò mimose. Ma l’abbraccerò, pensando a come svolge (anche lei) il ruolo di mamma e di moglie con passione ed eroismo. Sono proprio fortunato, con le donne. Sono così fortunato che mi sembra la mia, di festa. Ma questo non glielo dico, va’.

Il nuotatore non ride

Saranno i cinquecento chilometri percorsi la mattina stessa, in macchina. Sotto una pioggia incessante. Pioggia che non ha smesso di cadere neanche quando la macchina è entrata nella nebbia. Saranno i giorni fuori casa, con la stessa pioggia quasi costante. O saranno i primi freddi di questo autunno.  Ma il nuotatore è arrivato in piscina stanco. Silenzioso. Si mordicchiava il labbro inferiore e non parlava.

E adesso l’allenatore gli dice di muovere meglio le gambe. Con più forza. Ma il nuotatore è distratto. Nota solo il cronometro appeso al collo dell’allenatore. E pensa che non glielo ha mai visto usare. Chissà se funziona davvero o è solo per darsi un tono.

Nella stessa corsia Gabriel fa il furbo. Ma oggi non è giornata. Uno scherzo, una sfida e una spinta. Il nuotatore non ci pensa molto a mettergli la testa sotto l’acqua. E gliela tiene sotto.  Quel tanto che basta per chiarire chi comanda e soprattutto che non è proprio giornata.

L’allenatore manda fuori dalla vasca il nuotatore. Mentre Gabriel ancora tossisce.

Non è bello che succedano queste cose. Soprattutto se il nuotatore è tuo figlio. E ha quattro anni e mezzo.