Gianluca aveva vinto quasi del tutto quel senso di disagio che provava nella sfilata obbligatoria da spogliatoio, doccia e vasca.
Aveva pensieri che somigliavano a una lettera per la quale non serviva affrancatura o codice di avviamento postale.
Pensava a mente alta: “Chi lo avrebbe detto che mi sarei trovato ancora in una piscina, io che con l’acqua ho un rapporto così difficile. Non mi sono tuffato dal bordo, come quando c’eri tu. Mi sono seduto, i piedi dentro, a cercare sul fondo il mio coraggio.
Qui mi sa che tocco persino, ma il mio pensiero è un altro. Penso a quando c’eri tu, che era un miracolo vederti scivolare sul fondo, quando davi prova di acquaticità. Ti davi una spinta forte sul bordo e andavi in apnea a poche spanne dal fondo e ogni movimento sembrava la cosa più facile. Andavi così, fino al muro in fondo. Scivolavi piano.
Io cercavo di seguirti, di imitarti, di plasmarmi. Ma quell’acqua per me aveva un sapore diverso. Palato naso bronchi muscoli tesi. Poi piano piano ci siamo allontanati, ognuno per dar retta ai propri egoismi, ai piccoli capricci di cui ci prendiamo il lusso. Sono aumentate le pause tra una parola e l’altra. Ripensamenti silenzi. Distanze che si allargano, messaggeri sempre più affanati tra gli avamposti dei nostri sogni. E sei andata via, scivolata piano.”
“Che fai non ti butti? Aspetti che si riscaldi?” L’istruttore in ciabatte ripesca Gianluca dalla sua missiva.
Gianluca allora si decide, pianta i palmi a fianco del sedere, sposta il peso del corpo in avanti e si cala piano. Fa entrare l’acqua negli occhialini per togliere vapore e ultime remore e piega le gambe per immergersi. Cerca una posizione il più possibile idrodinamica e si spinge con tutto l’amore che ha. Piante dei piedi contro il muro a piastrelline, contro le distanze, contro il passato.
“Eccomi, ti raggiungo, non so come ma scivolo piano verso di te. In apnea scivolo piano. Piano”