festa

Non di mimosa

Stamattina alle sei piscina autobus di lineacorrevo e ho visto due giovani donne in tuta da ginnastica ultra-tecnica iper-firmata che si sono fermate a depredare una pianta di mimosa. Ah, già: è l’8 marzo. Ho sempre trovato triste questo contentino. E ho pensato a scrivere qualcosa per il mio blog. Su qualche donna e qualche impresa che valesse la pena ricordare. Trasvolate, traversate, conquiste. Poi mi è venuta in mente un’altra impresa che sugli almanacchi non è riportata.

Mi è venuto in mente qualche immagine, fine anni ’70, quando mia mamma ha cercato di portarmi in piscina. Alla piscina GEAS di Sesto. Ricordo solo alcuni particolari, ma sono più che sufficienti per delineare l’eroismo di quel gesto materno.
Ricordo l’odore forte di cloro, il fastidio dell’umidità e il prurito dell’acqua nel naso. Ricordo quanto rompevo le scatole coi miei “Non ci voglio più andare”. Io che da buon primogenito remissivo, di capricci non ne ho mai fatti troppi. Ma la memoria spesso è indulgente sui noi stessi. Ricordo la paura dell’acqua. Un blocco che neanche la tavoletta gonfiabile (nera da un lato e gialla dall’altro) riuscivano a sciogliere.
Il mio rapporto con l’acqua è sempre stato problematico. Un elemento che mi piace, ma verso cui ho una incredibile rigidità. Mi avevano iscritto per un problema di scapole alate. Che era una cosa che andava di moda allora. Il pediatra aveva consigliato di farmi fare nuoto. Anche se a me questa cosa di avere le ali dietro la schiena non è che mi dispiacesse poi tanto.
Dovevo essere in terza o quarta elementare. Mia mamma portava me, dopo essere passata a prendere mia sorella all’asilo. Naturalmente portando anche mio fratello (di mezzo) per mano. Non so con che mano tenesse la borsa della piscina. Ma so che questa comitiva di ribelli si spostava in autobus. Con “la [linea] C”, che adesso ha un altro nome, ma allora era solo “la C”. Ché quando dicevi “devo prendere la C” tutti ti capivano. Eh già, perché allora mica era tanto normale avere più di un’automobile per famiglia.
Mi ricordo l’autobus arancione e il buio invernale fuori. E i miei capricci. E uscire con la testa ancora bagnata, perché non ho mai sopportato i fon.
Penso che dopo tre mesi si sia rassegnata ai miei capricci e, con inconfessabile sollievo, ha deciso di non rinnovare altri tre mesi di supplizio alla piscina GEAS.

Penso alla fatica di quei tempi. Organizzare, fare tutto. Orari, responsabilità e fatica fisica.
E penso che per colpa del pudore che lei mi ha insegnato, io paradossalmente non ho mai imparato a dirle che le voglio bene. A dirle quanto lo apprezzi. Adesso che sono io che porto in piscina i bambini. La storia della piscina è un episodio inutile, passeggero, che non dice niente del resto. Ma che mi riporta alla mente tutto l’amore che ho ricevuto. Vorrei saperlo dire, anche tardi, anche adesso.

Con la testa faccio un salto. Stasera a Francesca non porterò mimose. Ma l’abbraccerò, pensando a come svolge (anche lei) il ruolo di mamma e di moglie con passione ed eroismo. Sono proprio fortunato, con le donne. Sono così fortunato che mi sembra la mia, di festa. Ma questo non glielo dico, va’.